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Pizzul: «I cronisti di oggi? Fin troppo bravi, ma la tv sembra raccontare più se stessa della partita»

Al Corsera: «Nelle trasferte Bearzot e io parlavamo in dialetto friulano. I colleghi pensavano mi confidasse segreti tattici, ma parlavamo delle vendemmie» 

Pizzul: «I cronisti di oggi? Fin troppo bravi, ma la tv sembra raccontare più se stessa della partita»

Il Corriere della Sera intervista Bruno Pizzul. Beppe Viola lo definiva «l’uomo più buono del mondo». Si dice lusingato del complimento, ma si definisce un uomo tranquillo e rispettoso.

«Detta da Beppe è una frase che mi lusinga. Ma non è questione di bontà, sono solo un uomo tranquillo che cerca di rispettare gli altri».

Parla del suo passato alla Rai.

«Venni accolto benissimo, in città come alla Rai dove ho lavorato per decenni senza alcuna promozione, cosa che mi rende orgoglioso».

A Milano frequentava il bar sotto casa.

«I bar erano due. Frequentati da una congrega di calciatori, allenatori, giocatori di scopa e tressette. Cena da Londonio dove si faceva il calciomercato. Con Trapattoni, Radice, Bellugi. Carte e liti furibonde. Fumavo lì perché in casa c’era la Tigre (sua moglie, ndr) con le sue reprimende. Ho fumato sino a sette anni fa. Mi spiace non aver smesso prima. Ogni volta che incrocio Boninsegna ripete: mi hai affumicato durante le telecronache».

Continua:

«Strinsi un rapporto speciale proprio con Viola anche se capì subito che non mi sarei alzato alle 4 del mattino per accompagnarlo a vedere i trottatori sgambare. Poi Gianni Brera, sempre gentile. Con i colleghi si stava bene, sempre insieme. Mi pare che questo sia un po’ sparito. Anche con i campioni si metteva in comune molto, ora è impossibile. Troppi filtri, liste di attesa per un’intervista, complicazioni da diritti tv. Rapporti personali quasi inesistenti. È uno specchio di questo tempo: nervosismi, scarsa capacità di accettare l’altro».

Pizzul è stato anche calciatore, prima di essere fermato da un infortunio al ginocchio.

«Speravo e sognavo. Poi capii che la mia passione era inversamente proporzionale al talento. Ero riuscito a laurearmi, insegnavo alle medie di Gorizia. La Rai di Trieste organizzò un concorso per programmista. Non si presentò nessuno e mi invitarono a partecipare in quanto giovane laureato. Uno dei membri della commissione era Paolo Valenti: mi aveva visto giocare, mi aveva notato. Per l’altezza, non certo per la bravura. Fu lui a dirottarmi sul concorso per radio-telecronisti. Con me c’erano Bruno Vespa, Paolo Frajese. Beh, venni assunto, con mia somma sorpresa. Cominciò così una carriera inaspettata. Le modalità: irripetibili. Quando un giovane mi chiede come fare a diventare telecronista non so che dire. I giovani fanno fatica e sono troppo spesso sfruttati in maniera invereconda».

Parla di Nando Martellini e di Nicolò Carosio.

«Diceva, con quel suo tono stentoreo: anche se sfortunatamente fossi astemio, fatti sempre vedere con un whisky in mano, così quando pronuncerai qualche stupidaggine potranno dire che avevi bevuto».

Gli viene chiesto chi gli piace ascoltare tra i telecronisti di oggi. Risponde:

«Mi pare ci sia una eccessiva presenza di parole. Venivamo accusati di parlare troppo quando la telecronaca era fatta da una sola persona. Oggi sono coinvolti tre o quattro cronisti. Sono tutti bravi, persino troppo. E qualche volta ho la sensazione che sia la televisione a raccontare se stessa più della partita».

Sul rapporto speciale con Bearzot:

«Con Bearzot ho avuto un rapporto particolare. Era friulano pure lui, parlavamo nel nostro dialetto, seduti fianco a fianco. La cosa generò sospetti e invidie perché molti colleghi credevano che Enzo stesse confidandomi chissà quali segreti tattici. In realtà parlavamo delle vendemmie».

Sulla tragedia dell’Heysel.

«Il dolore più angoscioso. Per la mia coscienza di uomo. Non è possibile andare a fare la telecronaca e dover parlare di 39 morti. È una memoria che talvolta vorrei cancellare ma non si può scordare ciò che dovrebbe portarci verso comportamenti più sereni e meno delittuosi».

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