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«Amo gli Europei: non ci sono sponsor sulle maglie, mi fanno dimenticare il calcio business»

La Stampa intervista lo scrittore Guez: «Oggi i giocatori hanno tutti fisici impressionanti, Insigne è un’eccezione. Vi spiego com’è nato il dribbling in Brasile»

«Amo gli Europei: non ci sono sponsor sulle maglie, mi fanno dimenticare il calcio business»
Mg Londra (Inghilterra) 06/07/2021 - Euro 2020 / Italia-Spagna / foto Matteo Gribaudi/Image Sport nella foto: Giorgio Chiellini

La Stampa intervista lo scrittore francese Oliver Guez. E fresco di stampa il suo “Una passione assurda e divorante: scritti sul calcio”. Una sorta di viaggio nel mondo del pallone (in Italia sarà pubblicato l’anno prossimo da Neri Pozza), con larghi sprazzi di Argentina.

«Dall’inizio del Covid, trovavo ridicola l’assenza del pubblico. Non mi emozionava più il calcio così. Poi arrivavo da un lungo periodo trascorso in Argentina, dove ci sono forse i tifosi più coinvolti del pianeta».

Guez ammette di avere un debole per l’Italia di Mancini:

«è magnifica. Mancini ha fatto un lavoro straordinario. Assistiamo a una rivoluzione culturale. Tutti attaccano e tutti difendono: è il calcio totale all’olandese. È come se si vedesse una squadra diversa a ogni partita. Ma c’è una filosofia di gioco costante. Non è basata su uno o due uomini. Non ci sono star».

Racconta una certa uniformità rintracciabile nei calciatori. Il calcio, dice, si è globalizzato.

«Fisicamente i giocatori sono tutti impressionanti. A parte qualche eccezione, tipo Lorenzo Insigne. Altrimenti sono sempre grossi. E hanno tutti lo stesso taglio di capelli e i medesimi tatuaggi. Il calcio si è globalizzato, anche quello giocato: d’altra parte sono tutti attivi nelle stesse grandi squadre internazionali. C’è stata una standardizzazione ad alto livello, per carità. Ma i club sono diventati imprese come le altre. Per questo ho un piacere particolare a guardare gli Europei. Non ci sono gli sponsor sulle maglie. E il giro di soldi è molto più ridotto. Si ha l’impressione che i giocatori si battano per qualcos’altro che un’azienda che li ha assunti per un certo periodo di tempo».

Nel suo libro spiega perché i brasiliani siano sempre stati i più bravi a fare il dribbling.

«Il calcio arrivò in Sudamerica con gli inglesi, alla fine del 19° secolo. In Brasile la schiavitù era stata appena abolita, ma restava una società di grande segregazione. Il calcio, sport inglese, fu adottato dalla borghesia e dall’aristocrazia bianche. Ma a pallone si può giocare con qualsiasi cosa… E così iniziarono pure i neri e i meticci. Dovevano travestirsi, si truccavano per apparire bianchi e si stiravano i capelli. Ma soprattutto cercavano di evitare in campo il contatto fisico con i bianchi. Per questo svilupparono l’arte della finta. È lo stesso con la samba e la capoeira: non si tocca l’altro».

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