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La Nazionale di Mancini è figlia del Napoli di Sarri

I due litigarono eppure il ct è stato bravo a capire che senza un Baggio sarebbe stato più efficace impostare il gioco in base a quei principi

La Nazionale di Mancini è figlia del Napoli di Sarri

Se Mancini ha un merito – e lo avrebbe pure se l’Italia riuscisse nell’impresa masochistica di uscire ai gironi di questo Europeo – è quello di aver ricostruito un entusiasmo intorno alla Nazionale italiana. Personalmente (ma sarà che non voglio pensare più a Napoli – Verona) confesso di non attendere con così trepidante curiosità l’Italia dal lontano 2012, quando giovane e scapestrato ero sinistramente affascinato dall’idea di andare a giocare gli Europei puntando sul talento scostumato e fuori dagli schemi di Cassano e Balotelli. Ragazzate: lo so. Però è così. E nel 2012 tra l’altro fino alla finale ci divertimmo.

Ma torniamo a noi: se ci fermiamo al campo – perché il Mancini virologo è piaciuto molto meno, francamente – è giusto dire che la strada scelta dal CT chiamato a ricostruire un movimento in macerie è degna di molto rispetto, che la si condivida o meno. Pure perché ha il pregio di essere molto precisa e coraggiosa.

Partiamo da un presupposto: io penso che questa moda di dividere gli allenatori in “gestori” ed “esteti” sia pericolosa. Gli unici gestori che conosco sono quelli del settore della telefonia (Tim, Vodafone e Wind), e invece l’estetica nella storia ha avuto un senso quando sotto l’abito c’era il monaco e si faceva pure sentire fortemente. Per dire: al di là delle tante chiacchiere io sono convinto che Sarri a Napoli non sia stato così amato – pure troppo, per carità – per l’estetica, ma semplicemente perché in quel triennio il Napoli (in campionato) vinceva quasi tutte le partite. Ch’è quello che i tifosi vogliono: vincere.

Non esistono, dunque. Né i gestori né gli esteti. Esistono gli allenatori e fanno tutti lo stesso mestiere: allenano i calciatori che hanno disposizione e, ponendosi degli obiettivi, individuano quello che è secondo loro il percorso più funzionale per raggiungere dei risultati. Chi mette davanti le sue idee a prescindere, senza confrontarsi con la realtà, forse fa il filosofo, ma non l’allenatore.

Sembreranno banalità, ma nel mondo del calcio e dell’opinionismo sportivo oramai si fanno macchiette su qualsiasi cosa, quindi è giusto ribadirlo.

Se sarrismo (com’è successo spesso agli -ismi) è diventato pure sinonimo di integralismo, però, allora Mancini, che non mi pare sia mai stato uno di principi giochisti nella sua carriera da allenatore (ricordo la sua ultima Inter, catenacciara come poche), è stato tutt’altro che sarrista. E questo proprio perché, mettendo in mostra una particolare versatilità di pensiero, ha capito che solo costruendo un gruppo con una forte identità collettiva e capace di proporre un calcio tarato non tanto sulla tradizione ma piuttosto su quello che ha qui ed ora da offrire il movimento avrebbe potuto ridare una credibilità ad una Nazionale che aveva toccato il fondo. Mancini si è staccato da Mancini e ha scoperto altre possibilità, insomma.

A cosa voglio arrivare? Al fatto che Mancini e Sarri, che si stanno pure poco simpatici e che si beccarono sulla questione dell’omofobia, sono due allenatori completamente diversi, forse addirittura agli antipodi, eppure il Mancio – resosi conto che di Roby Baggio all’orizzonte non ce n’erano – ha messo su una Nazionale ch’è molto più figlia (forse illegittima, ma pur sempre figlia) di quel Napoli, quantomeno nei principi tattici, che della cultura calcistica invece più tipicamente radicata nel nostro Paese. Una sfida dai risvolti che non conosciamo, ma che resta interessante.

L’Italia è infatti una squadra offensiva, che costruisce gioco (e ne costruisce tanto, con un piglio che ci è quasi nuovo) principalmente sul lato sinistro del campo, dove Insigne, messo per la prima volta al centro del progetto tecnico, viene dentro al campo e crea lo spazio per un terzino che agisce praticamente da ala aggiunta (Spinazzola o Emerson) e che, assieme al capitano del Napoli e alla mezzala più creativa e fine nel tocco (Verratti), imbastisce le trame e gestisce il possesso. Questa situazione porta spesso la mezzala sinistra degli azzurri a rendersi pure pericolosa in zona gol, come faceva Hamsik. Anche se, forse per una questione di caratteristiche, va detto che quest’ultima cosa (i gol, che nel calcio servono a qualcosa) l’hanno fatta forse meglio Sensi, Pellegrini e Locatelli che Verratti stesso.

Al contrario, così come quel Napoli, l’Italia di destra va a chiudere l’azione sul lato opposto a quello che costruisce con l’altra ala in campo (Berardi o Chiesa) o a spezzare quella degli avversari con quel Barella box to box che forse riesce a riproporre e poi a inserirsi pure meglio di quanto faceva straordinariamente bene Allan nel Napoli.

A ricordare quell’impostazione c’è, manco a dirlo, Jorginho, fresco campione d’Europa, che di questa squadra detta i ritmi dal primo secondo in cui Mancini s’è seduto sulla panchina consegnando all’italo-brasiliano le chiavi di un centrocampo che gira e che prende spesso possesso della partita. Un centrocampo con due registi: Jorginho ci mette il metodo, Verratti qualche fiammata.

Dell’Ital-Juve, insomma, sono rimaste dal punto di vista dei concetti in campo solo le certezze (ancora granitiche, speriamo) della premiata ditta Chiellini-Bonucci.

Per il resto, i riferimenti sembrano altri.

Diverso il discorso fuori dal campo: oltre che nella comunicazione e nell’impatto esterno, Mancini è stato molto meno sarrista quando s’è trattato di puntare su dei giovani, perfino giovani che nei club non avevano mai fatto un minuto in Serie A (attraendo su di sé più di qualche critica) e quando s’è trattato di ruotare uomini e sperimentare soluzioni diverse anche a partita in corso.

Verrebbe quindi da dire che Mancini, che, ripeto ancora, con quel tipo di calcio aveva avuto nelle sue passate esperienze ben poco da spartire, ha avuto la bravura e la furbizia di raccogliere quanto di buono aveva proposto quel Napoli al calcio italiano, capendo che senza (all’epoca, perché oggi in verità tanti calciatori sono pure cresciuti) grossissime individualità a disposizione, si poteva ripartire solo da lì, da una Nazionale-club.

È stata, col senno di poi, una scelta intelligente. Se pagherà nelle partite che contano inizieremo a vederlo nelle prossime settimane. Se Mancini poi riuscisse a vincere pure qualche titulo, abbinando al lavoro compiuto sull’identità le giuste intuizioni, avrebbe compiuto una specie di capolavoro. E questo perché – ha voglia, il Mancio, di dire che vuole dominare il gioco e arrivare fino in fondo (con un atteggiamento pretenzioso che intriga e che condividiamo) – ci sono almeno quattro squadre che sono sulla carta molto più forti dell’Italia. Contro cui il pallone rischi proprio di non vederlo.

È lì che devi essere bravo a cambiare. A trovare una variazione sullo spartito. A superare i limiti che quel Napoli invece, a volte ottusamente, non è quasi mai riuscito a superare.

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