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Napoli storce il naso davanti a Spalletti, in realtà è l’uomo che cerca

Non piace per motivi empatici che nulla hanno a che fare col calcio. È invece la persona giusta per costruire un’identità, in campo e fuori

Napoli storce il naso davanti a Spalletti, in realtà è l’uomo che cerca

Sarà colpa anche questa del surriscaldamento globale. Le stagioni dei tecnici son cambiate. A Napoli, per due anni di fila, i tempi si sono fatti maturi sul finire di gennaio. Tant’è che per ben quattro mesi la piazza si è interrogata su quello che sarebbe stato il successore di Gattuso. E se c’è un nome, venuto fuori alle idi di marzo, che non ha mai trovato favori è quello di Luciano Spalletti.
Inclini al suo arrivo sembrano essere soltanto quelli che agli occhi degli altri risultano bastian contrari o “teorici”. Gli altri, gli oppositori, invece, hanno posto da subito contrarietà all’allenatore di Certaldo, facendo leva però non su motivi tecnico-tattici o ideologici, bensì empatici. La scelta del nuovo allenatore si risolveva in questi seguendo i criteri della ricerca di una moglie o una fidanzata, come se Spalletti da Capodichino non si recasse a Castelvolturno ma nella loro camera da letto. “No a Luciano” non perché è un cattivo tecnico. “No a Luciano” perché è antipatico, arrogante, solipsista e prolisso. La frangia masochista implora la sua venuta solo per vederlo sbattere alla porta Insigne, alla stregua di quanto fatto con Totti prima e Icardi poi.

Gli stessi in questi mesi si professavano ben disposti ad accogliere un Italiano qualsiasi, uno Juric, o perfino un Dionisi, pur di non vedere il toscano dalle parti del Maradona. Il palmarès (2 Coppa Italia, 1 Supercoppa italiana, 2 Campionati russi, 1 Coppa di Russia, 1 Supercoppa di Russia) vale quanto le ossa di ginocchio, al massimo si può fare il brodo. Il caso Ancelotti insegna. Tenendo fede ad una cultura tutta italiana che in ogni campo vede la meritocrazia e il curriculum sottomettersi alla predilezione per simpatia o impressione.

Simpatia e impressioni che Luciano non potrà mai conquistare, così come mai potrà conquistare la parte più superficiale degli appassionati e dei protagonisti della comunicazione. La colpa è quella di godere di una proprietà di linguaggio che non gli permette l’uso dei classici stereotipi. In pratica il problema è che ascoltarlo risulta impegnativo, bisogna alzare il livello di attenzione, cosa, al tempo dei social, familiare a pochi tra tifosi e attori dei media. È la frase fatta a fare effetto, a risultare autentica anche se non lo è, da uomini di campo e non da filosofi. È dispendioso pensare che dietro alla ricercatezza, tipica di Spalletti, possa nascondersi la cura di adattare ogni descrizione e critica ad una particolare situazione di gioco, o alle caratteristiche di un giocatore per essere quanto più vicini al vero.

Fatto sta che De Laurentiis, mai distintosi per prestare orecchio alla strada, ha reso tutto questo cappello un Borsalino indossato in coupé, al servizio del vento, e rintracciato comunque in questa opzione la migliore soluzione possibile per la panchina azzurra, nonché la più intelligente. A spezzare qualunque resistenza c’è l’affinità tattica di Spalletti con gli ultimi corsi azzurri. L’ex Zenit è stato il primo a portare in Italia il 4-2-3-1, ai tempi dell’Empoli. 4-2-3-1 che lo ha reso grande a Roma, diventando un suo marchio di fabbrica tra il 2006 e il 2008, quando veniva apprezzato per la creazione di un gioco spettacolare e ritenuto da molti il più appagante in Europa.

Nonostante ciò, però, l’estetica non è un punto cardine del suo credo calcistico. L’humus culturale da cui Lucianone proviene è quello del pragmatismo tattico, essenza della scuola calcistica italiana. Non sono i giocatori a doversi adattare a un’idea di gioco, ma il contrario. L’idea è che i giocatori debbano giocare come sanno fare veramente, il punto è che “il come farlo” lo decide lui e ciò lo rende erede temporale di Gattuso ma naturale di Sarri, e l’esplosività del suo arrivo sta proprio in questo: nella continuità ideologica e logica con il triennio più florido del Napoli contemporaneo.
 
Ringhio è stato un capobranco, una guida ma sullo stesso piano degli altri “lupi”, l’unico che poteva interrompere l’anarchia nel bosco azzurro ed essere riconosciuto.

Spalletti, cosi come il Comandante, è un pedagogo: insegna e vuole che l’insegnamento venga applicato. Sceglierlo vuol dire andare oltre il ristabilimento dell’ordine, che non bastava più, e ritornare a quella gerarchia militare che permise di fare tanto bene a dei giocatori bisognosi di subordinazione rispetto al tecnico perché evidentemente incapaci e immaturi per trovare equilibrio e soluzioni da soli. Tecnico il quale chiederà fiducia totale nelle sue idee, con la promessa che quest’ultime permetteranno loro di esprimersi al massimo del proprio valore.

Ultimo, ma non in ultimo, a far sborsare un assegno alla Filmauro c’è un dettaglio, leggasi aziendalismo tanto caro al Presidente, sintetizzabile in questa frase pronunciata da Spalletti stesso: “Il mio babbo diceva che nella vita bisogna sapersi accontentare, e io ho sempre pensato che più d’una bistecca al giorno non mangio e quindi me ne frego della mucca intera”.

 La mucca intera prima di acquistarla l’ha valutata a fondo ADL che in affari non è certo il provolone che sborsa 500mila lire per la Fontana di Trevi.

C’è da costruire un’identità, in un ambiente che l’ha vissuta per anni in maniera alienata. Un’identità che va oltre il campo e deve rappresentare l’intera esperienza del club, fare ambiente. Questo è stato il lavoro svolto dell’ultimo Spalletti a Roma e all’Inter. Raccolse da Pioli una squadra individualista capace di andare solo in verticale e inadatta alla gestione dei momenti critici (vi ricorda qualcosa?), avvolta da un’atmosfera esterna incerta. 
Trascinò nella sua idea di calcio gli uomini, riportandoli in Champions (per due anni consecutivi, dopo sette esclusioni) mettendo le basi per il lavoro di Conte, e restituì convinzioni ai tifosi. In pratica riuscì nel suo obiettivo. 
Che ci riesca a Napoli non è scontato, ma le physique du rôle è dannatamente quello giusto.

E la piazza, che non apre le braccia per accoglierlo, in quello che non vuole potrebbe trovare quello che cerca. Un nuovo condottiero restauratore di fanatismo e personalità di squadra.

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