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La fine dell’era Paratici, il prestanome bianconero nel bene e nel male

Se ne va prima di dover cacciare il “suo” Pirlo per la restaurazione Allegri. Chiudendo una decade sul filo del rasoio, comunicativo ma anche penale

La fine dell’era Paratici, il prestanome bianconero nel bene e nel male

Stavolta Fabio Paratici non ha fatto in tempo a dichiarare pubblicamente la conferma d’un allenatore che avrebbe licenziato poche ore dopo. Ha evitato il trattamento Sarri al “suo” Pirlo. Ha optato per l’uscita di scena preventiva, in prima persona, in attesa della restaurazione Allegri. Chiudendo una decade intera costruita da lui anche a nome suo, prestanome bianconero nel bene e nel male. Nel malissimo, considerato l’ultimo anno.

Paratici è stato il Mr Wolf della Juve. L’uomo che conobbe Giuntoli rimorchiando straniere alle stazione di Firenze ha gestito il peso di una carica – managing director dell’Area Football della Juventus – che lo poneva appena al di sotto di Agnelli. Sopportandone il blasone ma anche gli smottamenti. Lavorando al mercato, poi anche a tutto il resto, compreso il lavoro “sporco”: le scorribande negli spogliatoi degli arbitri, quelle all’Università di Perugia. Come fossero tutte specializzazioni della stessa mansione.

Essere Paratici è stato un lavoraccio: sacrifici e figuracce, ostentazione delle mezze verità, sempre la faccia giusta al momento giusto. Un muro di gomma morale. E il silenzio, a volte sul filo del rasoio penale.  

Un anno fa, era agosto (il 10 per l’esattezza). Di venerdì sera Paratici confermava a pieni polmoni Sarri, il venerdì notte era fuori dalla Champions, il sabato nel primo pomeriggio esonerava Sarri, il sabato nel secondo pomeriggio ufficializzava Pirlo. Dietro quel modo così juventino di gestire le cose – soprattutto la comunicazione – c’era Fabio Paratici.

Gli avessero dato modo avrebbe probabilmente riscritto lo stesso copione, in queste ore, per il benservito di Pirlo. Sarebbe andato in tv e con una tigna ammirevole avrebbe difeso la strategia della continuità discontinua: da Allegri a Sarri a Pirlo ad Allegri, come fosse un unico filo logico. Con una faccia di bronzo di Riace, implacabile. Una statua piantata tra magia comunicativa e realismo.

Il nesso apparente col bubbone Suarez è puramente metodologico: così faceva, così si fa. Essere Paratici è questa roba qua. E non sarà più. L’anno è stato impegnativo, alla Juve sta cambiando tutto, e lui è il primo a saltare. Tanto, per fisiologia, Paratici ha la caduta sempre in piedi. Le prove generali, ricordiamolo, ancora l’estate scorsa quando l’uomo che s’era sputtanato la credibilità poche ore prima confermando un allenatore poi esonerato in un battibaleno, passava per il sogno proibito di mezza Serie A. Una giostra, sempre uguale.

Paratici ha rischiato, nell’ultima stagione, di incrinare un curriculum blindato. L’uomo che mentre fa la gavetta con Lorenzo Marronaro, incontra a tavola Marotta, già dirigente alla Sampdoria, e lo conquista elencando una serie infinita di calciatori sconosciuti descrivendone minuziosamente caratteristiche e doti tecniche. Il fante di Marotta che con – e senza di lui – vince nove scudetti di fila. L’esecutore materiale dell’acquisto di Cristiano Ronaldo, servitogli su un piatto d’argento da Mendes. Non è uno qualunque, Paratici. Ma anche Ronaldo pare sull’uscio della Continassa. Tutti pezzi dello stesso puzzle.

C’è una bellissima intervista firmata nientemeno che da Walter Veltroni per la Gazzetta dello Sport – febbraio 2019 – in cui Paratici tra le altre cose parla di sé. Dice che essere Paratici è “il lavoro più bello del mondo” ma è pure una gran fatica.

“Una vocazione. Come fare la suora, ma nel calcio”.

Il passaggio più bello è quello sugli allenatori, all’epoca c’era Allegri guarda un po’:

“Allegri ha una visione del gioco che non è statica. Spesso gli allenatori vedono il calcio in un modo, perseguono quello e cercano di continuare ad andare su quella strada, indipendentemente dal contesto. Conte, essendo molto juventino, è stato perfetto per quell’epoca. Conte aveva la juventinità – lavoro e voglia di vincere – nel suo Dna. Allegri invece ha assimilato la juventinità, ne ha presa molta. Lui è migliorato, ma allo stesso tempo ha portato a noi quella leggerezza che noi non avremmo avuto e non avevamo”.

Domanda: quindi Allegri resta?
Risposta:

“Certo che resta. Non vedo proprio un allenatore migliore”.

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