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La caduta dell’Impero cinese dell’Inter: dissolto come un qualunque bauscia con la fabbrichetta

Un altro colpo al mito dello straniero ricco, potente e salvatore. Gli stranieri fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare: far fallire le società di calcio

La caduta dell’Impero cinese dell’Inter: dissolto come un qualunque bauscia con la fabbrichetta

Chiamate Federica Sciarelli. In meno di un mese abbiamo perso le tracce della Grande Inter, quella dello Scudetto in fuga, delle feste assembrate sotto al Duomo, dell’inevitabile miracolo-a-Milano capace di interrompere il decennio juventino. Tagliato il traguardo, s’è scomposta. Come un Lego technic che si schianta al pavimento, in mille pezzi che ritroverai nelle notti a venire sotto ai talloni mentre sacramenti per il dolore. Un Lautaro qua, un Lukaku là. Conte, persino Conte. Il collante di tutto, l’artefice del “capolavoro” motivazionale ai limiti della patologia psichiatrica, che lascia, tratta buonuscite. Un attimo vincente, l’attimo dopo fuggente.

L’Impero cinese s’è dissolto, come una medusa al sole. E così tutta quella pesantissima retorica d’accatto sul sogno dello straniero salvatore, il “gruppo”, la “multinazionale”, il “potentato”, nelle versioni più esotiche “l’emiro”. L’alieno venuto in pace a conquistarti, per redimere le tue velleità da barbone, strappandoti da un destino comprimario per farti ricco e vincente. E mai una sola cosa alla volta: vincente perché ricco, e viceversa. In Italia negli ultimi anni ne sono arrivati a frotte: Pallotta, Commisso, Friedkin, i cinesi e poi gli americani del Milan, solo per dirne alcuni. Tutti introdotti in società con la fanfara e quella melliflua esterofilia che abbiamo scritta nel dna.

La storia dell’Inter è un paradigma, la spettacolarizzazione di una dinamica che il calcio italiano conosce fin troppo bene: il piccolo imprenditore, il bauscia con la fabbrichétta, che compera in saldi la squadra del cuore, si indebita, vince qualcosa, fallisce. Una parabola fetente, che nel caso dell’Inter prende proporzioni abnormi, perché s’allarga fino a risentire della politica industriale della superpotenza cinese. La più forte squadra italiana ridotta ad un giocattolo, un piccolo danno collaterale. Una briciola.

James Horncastle su The Athletic già a marzo aveva ben raccontato la crisi Suning. Rendendola per quella che è: una crisi di Stato. Prezzo delle azioni dimezzato in tre anni, investimenti immobiliari andati a vuoto, un piano di salvataggio che coinvolge un’altra delle più grandi società cinesi fallito. Suning è stato costretto a vendere quasi un quarto delle sue attività quotate in borsa, mentre l’Inter volava a prendersi il tanto agognato scudetto.

Inciso: il nostro è un tic. Agogniamo l’annessione agli imperi, ma poi ne raccontiamo le sorti per compartimenti stagni. La società annaspa, la squadra vince, buona la seconda e amen. Poi ci stupiamo a macerie fumanti. Fine dell’inciso.

L’Impero proprietario dell’Inter è un conglomerato, diversificatosi in media, immobili, sport e tecnologia. Ha cambiato core business (e nome in Suning.com) nel 2018 passando allo shopping online, restando al contempo il più grande rivenditore di mattoni e malta della Cina. Ma questa è una matrioska: Suning è un contenuto della Cina. Dove – scrive The Athletic –  c’è ancora spazio per un solo capo e il suo nome è il presidente Xi Jinping. 

Simon Chadwick, professore alla Emlyon Business School, dice che “le vicende di Suning raccontano cosa significa vivere e lavorare in un paese autoritario e pianificato a livello centrale”. “Nessuna persona e nessuna azienda può ora essere più grande dello Stato, che è onnipresente e onnipotente. Il ridimensionamento di Suning è la risposta archetipica alle priorità e alle pressioni del governo centrale: attenersi a ciò che si conosce, non impegnarsi in capricci all’estero e ricordare sempre chi è al comando”.

L’Inter insomma si è ritrovata coinvolta negli affari di un paese “in cui il governo ha il potere di dire alle società private di investire nel calcio, e loro lo fanno, fino a quando il governo non dice loro di smetterla, e loro lo fanno”.

Voleva diventare un “superclub” ed ora si ritrova con un titolo nazionale in più e le armate in rotta. Conte – che piange miseria (è un modo di dire) sempre, su tutto – disse in tempi non sospetti  che “il progetto si è interrotto ad agosto”, e intendeva lo scorso agosto. Un anno fa. La transumanza verso questo scudetto, come se niente stesse accadendo, imbellettata dai triti richiami all’impresa sportiva, s’è rivelata un’illusione. L’illusione del calcio italiano di farsi accudire da chi ha di più, molto di più. Di lasciarsi prendere, e coccolare. Di abbandonarsi a logiche superiori, che non può controllare, basta che ti portino lì, in mezzo al campo a festeggiare. Il resto, come diceva quello, è noia. Almeno fino a quando il grande Impero non bussa alla porta, vestito di cartone, e questua rateizzazioni per gli stipendi, ingaggi al ribasso, un po’ di carità.

Gli stranieri vengono in Italia a fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare: far fallire le società di calcio.

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