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Col Verona è stato un trauma. Ci siamo illusi di essere nell’olimpo del calcio

Sono andate in Champions le squadre più indebitate (tranne l’Atalanta) che guardano a mercati internazionali. Il Napoli ha una struttura familiare

Col Verona è stato un trauma. Ci siamo illusi di essere nell’olimpo del calcio
foto Hermann

Un trauma. Maggiore di quello del 2018, quando perdemmo lo scudetto in albergo, perché allora dipendevamo comunque dalla Juve che aveva un punto più di noi. Maggiore del 2015, quando il rigore di Higuain finì alto sulla traversa, perché non eravamo ancora abituati a considerare la Champions cosa nostra e perché giocavamo contro la rivale diretta, mentre domenica contro una squadra assolutamente alla nostra portata, se non la avessimo persa addirittura nel minuto di raccoglimento, quando le inquadrature mostravano chiaramente terrore sui volti dei nostri undici. Un trauma perché se giochi con un terzino destro a sinistra per metà campionato non meriti di andare in Champions.

Un trauma perché ancora una volta al danno del quinto posto si è aggiunta la beffa di essere scavalcati al quarto dalla detestata Juve, arrivando a un passo da una bella soddisfazione: buttarla fuori dalla Champions proprio nell’anno della Superlega.

Ma soprattutto un trauma perché questa imprevista caduta (per quanto le cadute possano essere impreviste per il Napoli) sembra prospettare una vera e propria restaurazione: le milanesi e poi la Juve, con un quarto incomodo, almeno fino a quando ci sarà questa formula per la Champions.

Il trauma dovuto al fatto che è come se domenica fosse finito un sogno durato oltre un decennio e di cui bisogna dare atto ad ADL. Anche quello maradoniano è durato meno.

Anzi, per dirla tutta, il trauma è aver creduto che noi fossimo nell’Olimpo del calcio. Non è così. Non è mai stato così. E mi sembra evidente che non potrà essere così.

Per un motivo molto semplice. Ripetiamo da anni che il calcio è diventato una questione di soldi. E così è. Tranne l’Atalanta, vanno in Champions le squadre più indebitate. Squadre che se non avessero il nome che hanno dovrebbero portare i libri in tribunale. Ma non lo fanno e non lo faranno perché non è possibile pensare il calcio in Italia senza di loro. Ma non solo. Loro (e le altre big degli altri Paesi) sanno bene che potrebbero ricapitalizzarsi attraverso un campionato europeo. E ci arriveranno. In modo meno goffo di quanto appena fatto. Ma ci arriveranno. Quando sapranno risolvere la sottovalutazione del rilievo sociale e culturale del calcio, che deve tener conto delle passioni e delle identificazioni di noi tifosi. Dispiace che ce lo abbiano fatto capire soltanto i tifosi inglesi, costringendo il loro premier a fare marcia indietro; mentre noi siamo rimasti quasi del tutto silenti. Per non dire poi degli addetti ai lavori, che già si erano posizionati.

Il calcio del futuro sarà polarizzato ancor di più. Come succede al tennis, all’automobilismo e a tanti altri sport da tempo. La Pellegrini – con altri colleghi – sta provando con il nuoto a fare altrettanto, con un circuito dei nuotatori più affermati. Del resto va nella stessa direzione dell’economia mondiale. Anche i tanto osannati brand dell’alta moda sono dei nani se confrontati con quelli delle multinazionali del lusso, non a caso diventati proprietari di nostre note aziende.

Qual è la differenza? La struttura proprietaria. La Juve è di una holding già da tempo internazionalizzatasi. L’Inter e il Milan – per quello che si capisce – sono in mano a gruppi economico-finanziari che guardano necessariamente a mercati ben più larghi del nostro e anche di quello europeo. Non ce l’hanno fatta nemmeno Berlusconi e Moratti a stare al passo … figuriamoci noi, che anzi abbiamo sfruttato bene il decennio di transizione delle milanesi.

Come tutta l’industria dell’intrattenimento il calcio non si sottrarrà a questa direzione. Anche se ne facciamo – e continueremo a farne – bandiere identitarie.

Poi ci sono le proprietà tradizionali, le squadre di famiglia: De Laurentiis, Lotito, Cairo, Commisso. Come dicevo, molto coerenti con il tradizionale capitalismo familiare italiano. Quelli che devono considerare i bacini d’utenza e tenere i conti in ordine, perché non hanno santi protettori, né un futuro mercato più ampio. Quindi, possono soltanto affidarsi alla volontà e ai capricci delle proprietà. Nel bene e nel male.

Allora, forse, è giusto così. È giusto l’imbambolamento emotivo e tattico di domenica scorsa; è giusto che la Juve sia andata al nostro posto, spinta dalla nostra insipienza e da un rigore a favore grazie a un fallo di un suo giocatore. Ha anticipato un’illusione e fatto capire che dobbiamo mestamente scegliere di stare al nostro posto, in seconda fila. Senza accampare pretese, ma chiedendo analoga sincerità alle proprietà. Oppure mandiamo i grandi a fare il campionato europeo e ce la giochiamo fra noi.
A volte i traumi possono essere salutari e chiarirci le idee.

Poi restano i sogni … che ovviamente continueremo ad avere, perché altrimenti che tifosi saremmo?

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