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Che Champions è con Ferencvaros e Midtjylland e senza Tottenham e Benfica?

A questo serve la Superlega. Gli interessi elettorali di Ceferin e della Uefa non c’entrano niente col merito sportivo

Che Champions è con Ferencvaros e Midtjylland e senza Tottenham e Benfica?

La proposta di Superlega è stata demolita in breve tempo con veemenza su tutti i fronti: sportivo, politico, mediatico. Ha compattato così tanto la comunità contro l’incubo di un calcio capitalistico, impari, mosso principalmente dagli aspetti economici. Insomma un nemico che avrebbe dato forma istituzionale e legittimazione ai problemi che già dominano questo tipo di equilibri, assecondando le contraddizioni. Al di là del fatto che i club ideatori del torneo non abbiano ancora accantonato l’idea, restano gli spunti di riflessioni sorti da questa mossa, come ad esempio l’effettiva attrattività della Champions League.

Lo spettacolo offerto dal doppio confronto tra Bayern Monaco e Paris Saint-Germain ha suscitato l’acclamazione degli appassionati. Questa sfida però è stata frutto di un percorso cominciato da una fase a gironi che ha visto la partecipazione di squadre che non hanno lo spessore richiesto. In Champions non giocano le migliori squadre d’Europa, ma soltanto alcune. Così, nell’edizione che sta per volgere al termine, abbiamo potuto assistere alla partecipazione di Ferencvaros, Midtjylland, Brugge, Krasnodar, Basaksehir, di cui nessuna ha passato il girone e soltanto due sono arrivate terze. Contemporaneamente l’Europa League è stata giocata da squadre del calibro e del blasone di Tottenham, Leicester, Arsenal, Milan, Lille, Bayer Leverkusen, Benfica, Roma e Napoli.

Il problema sembra evidente e si può affermare con ragionevole certezza che una competizione ad inviti non sia di certo la soluzione migliore, e non solo sotto il profilo morale. Così come nemmeno il nuovo format della Champions sembra aver risolto qualcosa in tal senso, anzi: aumenta la probabilità di vedere più partite poco interessanti, dal momento che le gare della fase a gironi passano da sei a dieci.

Considerando tutto questo, quanto ci sentiamo di essere contrari alla spettacolarità che offrirebbe la Superlega? La risposta sembra scontata. Tante delle scelte di Ceferin sono state guidate dalla ricerca del consenso da parte delle federazioni minori, quelle che gli hanno consentito di essere eletto. Regalare loro il sogno della Champions si diluisce facilmente nel principio di inclusività ma non risponde all’esigenza di un’esperienza entusiasmante per tutta la durata della competizione, abbassandone di conseguenza il valore commerciale. Il conflitto alla base del caso Superlega è tutto qui. Chi guarda la Champions, lo fa restando in attesa del tabellone degli ottavi, sorbendosi nella maggior parte dei casi quattro gare su sei di scarso appeal ai gironi.

Riconosciuta la carenza strutturale, bisognerebbe trarre una specie di ispirazione dalla Superlega per riformare le competizioni europee. Magari avendo il coraggio di selezionare le squadre secondo criteri variegati, il che non vuol dire necessariamente prescindere dal merito sportivo. Ad esempio, aumentare il numero di squadre qualificate dai maggiori campionati europei, lasciandone invece altre a passare per i preliminari. Oppure, considerare il ranking Uefa per club: per intenderci nelle prime 32 della graduatoria tra i fondatori della Superlega soltanto il Milan non rientra (53°).

Inoltre, considerando quanto spesso ad un percorso in Europa non ne corrisponde uno altrettanto trionfale in campionato e viceversa, il parametro offerto del ranking sarebbe giusto da elevare per importanza. Un tentativo che la nuova riforma della Uefa sulla Champions League ha provato a introdurre, ma senza il coraggio necessario per renderlo più determinante nella selezione delle squadre. Con il risultato, alla fine dei conti, che il dibattito etico e politico finirà per soffocare quel che di buono si poteva trarre dalla rivoluzione fallita.

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