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Un mese dopo possiamo dirlo: la Campania ha tenuto le scuole chiuse per nulla

La serrata non ha avuto effetti sul contagio. Ma sui bambini sì: quelli campani hanno il record di lezioni in presenza saltate. A gratis

Un mese dopo possiamo dirlo: la Campania ha tenuto le scuole chiuse per nulla

Quelli che sentite di là, in stanzetta, urlare straziando i microfoni degli auricolari davanti ad una griglia di pixel a quadratini che loro chiamano “amici”, sono i vostri figli. Un mese fa Vincenzo De Luca ha deciso di etichettarli “prima linea del contagio”. Riproponendo un refrain che va avanti da ottobre 2020, a targhe alterne: gli studenti untori, la scuola colpevole. Non è una novità, figurarsi. Il dibattito sull’istruzione col passare delle settimane s’è disinnescato da solo, come succede spesso in Italia: il chiacchiericcio lo traduce in fuffa, diventa presto una questione di partiti, curve, ultras. 

Diamoci un limite: quando si potrà dire che il lockdown più o meno acritico e preventivo delle scuole non è servito a granché? Un mese va bene? Perché tanto è passato dall’ultima serrata in Campania. Niente lezioni “in presenza”, solo Dad. Dal più piccolo, cui la maestra sta cercando da tre ore e un quarto di spiegare attraverso uno schermo come si impugna la penna, al maturando che risponde “sì prof” mentre gioca alla Playstation. Per la burocrazia delle delibere che ha esternalizzato l’istruzione (ai genitori, ai nonni…) sono tutti uguali: dai 6 ai 18 anni, in remoto come se non ci fosse un domani. Che non è solo un modo dire.

Dopotrenta giorni cosa è cambiato? Qual è stato l’effetto di quella misura che altrove definiscono “estrema” e che in Campania viene presa con una disinvoltura un po’ inquietante, un disbrigo formale, scontato? 

Questo è il momento in cui vi aspettate il grafico, lo so. Le sinusoidi che abbiamo odiato – in presenza – allo Scientifico, senza le quali nel 2021 qualsiasi dibattito sul contagio rischia di essere bocciato per mancanza di requisiti minimi: dove stanno i numeri? Ebbene, ve lo risparmiamo. Perché se c’è una cosa che dopo un anno di Gallera&Fontana, di bollettini della Protezione Civile snocciolati come le estrazioni del Superenalotto, dovrebbe essere ormai chiaro è che i dati sono basculanti. Risentono di falle metodologiche, condizionamenti esterni, ritardi, e differenze infrastrutturali e geografiche. Sulla scuola, per non divagare, non c’è ancora uno studio definitivo che dimostri il nesso causale tra le lezioni regolari e l’aumento delle infezioni. I numeri, torturati, alla fine confesseranno sempre quello che vuoi. 

L’ultimo studio in ordine di tempo, condotto da una squadra di epidemiologi, medici, biologi e statistici tra cui Sara Gandini dello Ieo di Milano, sentenzia che “non c’è correlazione dimostrabile tra aumento dei contagi e apertura della scuola”. Una conclusione ottenuta incrociando i dati del Miur con quelli delle Asl e della Protezione civile fino a coprire un campione iniziale pari al 97% delle scuole italiane: più di 7,3 milioni di studenti e 770 mila insegnanti.

Lo studio dice che i focolai di Covid in classe sono molto rari (sotto il 7% di tutte le scuole) e la frequenza nella trasmissione da ragazzo a docente è statisticamente poco rilevante. Quattro volte più frequente che gli insegnanti si contagino tra loro, magari in sala professori.

In Campania, per restare alle cose nostre, basta prendere il bollettino quotidiano dei dati regionali dell’ultimo mese per vedere il trend a grandi linee. Scuole aperte o scuole chiuse, non è cambiato niente: 2000 circa nuovi positivi al giorno tutti i giorni, tasso ballerino attorno al 10%. Zona rossa.

Eppure De Luca, tradendo l’urgenza di ricordarci che quando chiudeva i bambini in casa ci stava salvando la vita, è stato persino ridondante: il problema è la scuola, e la movida. I giovani. Non senza qualche ragione, è ovvio. Ma l’ha fatto usando sempre un’ottica filtrata, con una grana diversa, più fine o più lasca, per individuare l’obiettivo. Cambiando unità di misura di volta in volta per rendere drammaticamente la sua tesi con più efficacia: i numeri assoluti invece delle percentuali, la distribuzione geografica dei positivi scolastici. Una volta si ammalavano 12 chili di bambini, quella dopo 38 chilometri di adolescenti. Un giorno andavano in quarantena 15 aule, un altro 25 plessi.

Come se poi davvero importasse. Fatevi un favore: alla prossima diretta Facebook di De Luca sbirciate il flusso di commenti che scorre sotto al Governatore che pontifica a rete unificata, senza mai una domanda o un contraddittorio. Le opposte fazioni, il tifo a priori. Il Commando del “chiudi tuttecos” e i Fedayn No Dad. Una commedia dell’arte che dei numeri, e delle spiegazioni, non ha bisogno. Quella fase è stata ampiamente superata. Ora “siamo tutti stanchi”: basta, chiudi, apri, fai qualcosa!  

Ma è nell’identificazione sbrigativa e facilona – monodirezionale – del colpevole che si nasconde il “caso” Campania, che è poi di tutto il sud. C’è un Rapporto di Save The Children che fotografa meglio di tutti la situazione: i bambini delle scuole dell’infanzia a Bari, per esempio, hanno potuto andare in classe 48 giorni sui 107 previsti, contro i loro coetanei di Milano che non hanno saltato nessuno dei 112 giorni. Gli studenti delle scuole medie a Napoli sono andati a scuola 42 giorni su 97, mentre quelli di Roma sono stati in presenza per tutti i 108 giorni previsti.

Eppure al nord e al centro i trend di infezione non sono variati, come non sono variati quelli delle regioni del sud. Di nuovo: il nesso causale non l’ha ancora dimostrato nessuno. Nel frattempo però la politica ha deciso – da sola, scegliendo di credere a questa o a quella evidenza statistica – che il virus è pericoloso solo nelle aule del sud, al nord meno. E nel dubbio ha privato del diritto all’istruzione (quella “live”, certo) solo una parte dei suoi ragazzi. Il federalismo delle opportunità. La Campania ha il record, in Italia, di giorni scolastici saltati.

Nonostante i governatori si nascondano dietro i vari “comitati di esperti”, le loro sono scelte politiche. Che palesano le priorità e il dispregio di alcuni principi, che evidentemente altrove ancora reggono. In Francia sono in lockdown, ma le scuole sono aperte. E in Germania, il lockdown durissimo che Merkel aveva deciso per Pasqua prima di rimangiarselo, chiudeva tutto – financo le chiese e i supermercati – ma la scuola no.

Nel dubbio – perché di dubbio trattasi – spacciato per principio di precauzione qui si è deciso di sacrificare l’unica parte sacrificabile “a gratis”: i bambini, le scuole. La prima cosa da chiudere, a volte l’unica. Con distorsioni al limite del parossistico: quando ancora non si era in zona rossa, gli adolescenti finivano la Dad e si riversavano ai tavolini dei bar per l’aperitivo, chiusi nelle tensostrutture riscaldate (si era in pieno inverno), senza mascherina, liberi per legge di contagiarsi. Ma non di fare lezione. E così gli insegnanti.

E’ la stessa logica per cui si ammette che la scuola è un problema epidemiologico per il “contorno” (i trasporti, la folla dei genitori ecc…) ma invece di intervenire su quello, si taglia alla radice. Assumendosi con leggerezza l’inflizione del danno collaterale. Perché in Italia i giovani questo sono: statisticamente collaterali.

C’è stato un venerdì (in Italia le cose si annunciano sempre di venerdì, e vanno in vigore il lunedì per lasciare il weekend a decantare, si chiama strategia della tensione emotiva), venerdì 26 febbraio, perfettamente rappresentativo dell’impazzimento generale. Quel venerdì molte scuole napoletane restarono chiuse perché il personale scolastico era chiamato in massa a vaccinarsi. Gli stessi insegnanti che nel frattempo avevano aderito ad uno sciopero nazionale indetto “contro il governo Draghi” (ve lo ricordate quando da ragazzi andavate alle manifestazioni “contro il buco dell’ozono”? Ecco…): chiedevano il ritorno alla Dad, e il vaccino. Quello stesso venerdì, mentre almeno in Campania il vaccino gli veniva già inoculato, De Luca andava sull’internet e annunciava la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, con effetto immediato. L’effetto non immediato avrebbe prodotto un incredibile sciopero della Dad, il lunedì successivo, con gli insegnanti costretti a protestare contro lo stesso governo che nel frattempo aveva soddisfatto le loro richieste. Bingo.

Le zone rosse hanno poi appiattito il panorama, togliendo un po’ a De Luca l’impaccio della responsabilità, ma anche il primato d’immagine nell’intervento, che è la cifra elettorale del suo mandato. In ogni caso l’unicità del caso Campania riguarda il pregresso, quelle lunghe settimane in cui in tutta Italia le scuole erano aperte e solo qui no, persino in zona gialla. Quelle non sono più condonabili.


Di venerdì – sempre di venerdì – De Luca e Draghi quasi contemporaneamente anticiparono la volontà di riaprire appena possibile. “Mi è sempre stata a cuore, la scuola”, aggiunse e continua a ribadire De Luca, sempre con lo stesso tono marziale. Oggi – toh… venerdì – il governo ha annunciato che superata la Pasqua gli studenti più fragili, quelli fino alla prima media, torneranno in classe anche in zona rossa. De Luca – tempi di reazione al decimo di secondo – ha lasciato intendere che sì, “le scuole sono la vera priorità” e che sì, punta a riaprirle “in sicurezza”. Cioé? “Stiamo verificando la possibilità di vaccinare anche i ragazzi sotto i 18 anni…”.    

Un mese dopo, dunque, è forse arrivato il momento di concedere la libertà condizionata, sulla parola, alla scuola. Assolverla per mancanza di prove, perlomeno. Magari di andare avanti, progettando i mesi a venire, il prossimo anno scolastico. E rispondere a posteriori ad una domanda: ne valeva la pena? La “loro” pena?

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