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La lezione universitaria del professor Allegri è stata grandissima televisione

Allegri ha distribuito profondità parlando di leggerezza, ha smontato l’architrave ideologica dei teorici del “mio calcio”. Goduria in purezza

La lezione universitaria del professor Allegri è stata grandissima televisione

Era tarda sera, poi notte fonda. Per cui l’affannarsi a rintracciare nelle parole di Allegri una notiziola di calciomercato ha prodotto una serie di titoli fuorvianti, nell’immediato online e all’indomani in edicola: “Della Roma e del Napoli non so niente”, oppure “vi racconto il mio addio alla Juve”. Come a disinnescare, per tic, per stanchezza, per disabitudine a maneggiare eventi del genere, la lezione universitaria di calcio teorico e pratico che l’ex allenatore bianconero stava impartendo. Giganteggiando, gigioneggiando. Scrostando il “club” di Caressa dalla cronaca spicciola delle interviste post-partita, un’antimateria che risucchia l’intelligenza umana, per tradurlo in due ore di grandissima televisione sportiva. Proprio quel che dovrebbe fare una tv a pagamento: approfondimento di altissima qualità. Complimenti a Sky Sport e al club.

Alle 22:30 la Roma aveva perso, e il Napoli era in piena lotta per la zona Champions dopo aver vinto in una settimana a San Siro e all’Olimpico. Alle 23 c’era solo Allegri. Che infilava uno dietro l’altra spunti, riflessioni, micce, aneddotica varia. Un approfondimento da farne un format fisso, se il protagonista si concedesse con meno parsimonia. Due anni senza panchine, passati in silenzio o quasi (andiamo a memoria: un’intervista al New York Times e poco altro). Trascinato infine in studio a divertirsi – glielo si leggeva in faccia, che si divertiva un mondo: «Sono due anni che non parlo, speriamo che non dica troppe cazzate» – mentre demoliva di sponda (con Capello soprattutto, collegato in qualità Dad da Marbella) tutte le sovrastrutture posticce di cui il calcio d’oggi s’adorna, spesso a capocchia. Due ore da ripagarsi felici l’abbonamento mensile al pacchetto Calcio di Sky.

Per i feticisti del genere, un porno. Allegri ha distribuito profondità parlando di leggerezza, tirandosela come fanno quelli che hanno ragione di farlo: senza tirarsela troppo. Ha timbrato la serata col primo titolo:

«I giocatori sono diventati uno strumento per dimostrare che gli allenatori sono bravi».

E poi è andato a braccio. A quel punto lo spettatore che solitamente assiste, stesso canale stesso orario, alla sfilata di quelli che si beano del “mio calcio” e dei “nostri concetti” – peggio se sviscerati in terza persona – sobbalza: che cavolo sta dicendo questo? Chi è quest’alieno passatista che osa bestemmiare sulla sacra costruzione da dietro? E in che termini poi!

«Si deve far capire come si deve fare e quando farla, perché non sempre si può fare. Io ai miei dicevo, sulle palle mezze e mezze, “spazzate via”. Non è che accade nulla se la palla sta in aria per un paio di minuti. Non muore nessuno, dopo ricominciamo a giocare come sappiamo…”

E che, per lasciarci col dolcino finale, all’una passata, racconta di quando appena arrivato alla Juve prese in mano le statistiche di gioco e scoprì che Buffon aveva fatto possesso palla per un minuto e 39 secondi, un’eternità: “Guardai il mediano e… 40 secondi. Dissi ai giocatori: o la smettete di passare il pallone al portiere, e ve lo tolgo proprio il portiere!”.

Ascoltavamo rapiti, col trauma fresco dei trentamila retropassaggi a Ospina a rimestare nel nostro sconforto. Ma lui implacabile, lì, ad affondare colpo su colpo, come se non si tenesse più. Con Caressa giustamente euforico a dispensare assist. E quando ti ricapita una occasione così succulenta: briglie sciolte, pallone in purezza, come ne stessero parlando a cena, con paio di bottiglie buone al tavolo.

Poi, è fisiologia della partigianeria, ognuno ha ascoltato quel che voleva. Per cui quando Allegri ha spiegato l’importanza dell’adattamento al dna societario – perché ogni club ha una storia, una pelle, una carne, “il Milan non sarà mai la Juve” – qui a Napoli abbiamo sentito “dna” ed è scattato il riflesso pavloviano: “il dna Juve, gli arbitri, il malaffare e bla bla bla”. Ad un certo punto ha sacramentato: “Higuain è un fenomeno, aveva una tecnica incredibile”. Allegri a Napoli non durerebbe un mese, gliele farebbero scontare tutte.

Ma non era quello il punto, e non era quella l’intenzione. Allegri cercava di far passare un’idea del mestiere coerente con tutto il resto del discorso: il professionista non è un cavallo coi paraocchi, ma deve essere elastico, mutare forma in funzione del risultato finale, far vincere la società che ti stipendia rispettandone tradizione e modus operandi. Una visione persino politica, ma non ideologica. Da tradurre poi in campo con quella banalità che è “gli allenatori bravi sono quelli che si mettono al servizio dei giocatori, perché poi sono loro che lo fanno vincere”. Eh, quante volte l’abbiamo sentita? Ma il passo ulteriore è: quante volte, poi, l’abbiamo vista davvero messa in pratica? Il marziano Allegri stava parlando ai colleghi-scienziati, ai profeti del “mio calcio”, senza mandarla troppo a dire. L’introduzione era stata:

«L’allenatore è un mestiere che non si può insegnare. Durante la settimana è un mestiere e nel week end cambia tutto perché c’è la gestione dell’imprevisto»

Sentenza che riportava ad un altro spunto: la gestione liquida del tempo.

“Le partite non sono tutte uguali, e la stessa partita non è uguale col passare dei minuti. La prima mezzora è una partita, poi cambia, e cambia ancora”.

Il filo, teso, è sempre lo stesso: il calcio è uno sport situazionale, non puoi praticarlo senza arrenderti agli avvenimenti. E via con altri aneddoti, a colorare la lezione:

«I grandi calciatori mi hanno insegnato tanto. Una volta a Napoli feci entrare Dani Alves, eravamo in Coppa Italia, gli dissi: “mettiamoci a cinque dietro”. Dopo cinque minuti, venne da me e disse: “mister, mi metto a uomo su Insigne perché è l’unico che può crearci pericoli”. Perché i calciatori vogliono giocare uomo contro uomo, non vogliono giocare a zona, perché vogliono vedere se sono più forti dell’altro».

Nel frattempo s’era già fatto il giorno appresso, con Caressa che a malincuore doveva far scoppiare quella bolla “altrimenti qua mi cacciano”, sforando il palinsesto finché possibile ma non oltre. Allegri avrebbe continuato fino a colazione, come un professore innamorato della sua materia rimasto troppo a lungo senza cattedra. Almeno una notiziola, su quel fronte basso, gliel’avevano strappata: “A giugno torno ad allenare”. Dove? Chissà. Ma, viste le premesse, che importa. Basta che torni.

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