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Il grido di dolore per Mertens, che stretta al cuore vederlo in queste condizioni

Soffre e si vede. Gioca per spirito di sacrificio, ed è ormai funzionale all’alibi ambulante della squadra penalizzata dagli infortuni

Il grido di dolore per Mertens, che stretta al cuore vederlo in queste condizioni

Vecchio, ti chiameranno vecchio. Mentre infili il cambio con Osimhen e ti rendi conto che quella non è una porta girevole, come negli hotel quando da bambini non ne saresti uscito mai. Non è una giostra, è una penitenza. Si esce e basta. Inabile seppur arruolato, sarai giudicato come tale. Apprezzeranno intimamente il sacrificio, ma non troppo. In fondo, sei sempre pagato per quello: giocare e soffrire, possibilmente senza farlo pesare troppo, grazie.

Dries Mertens, di cui conserviamo il ricordo photoshoppato sulle spalle di Maradona perché non ci facciamo mai mancare lo spunto iconografico se serve a colorare un record, è invece una faccia triste, solitaria e finale. E’ inguardabile, letteralmente. Nel senso che così non vorremmo vederlo mai. Abbandona il campo mentre tutt’attorno sta montando il 3-1 al Bologna, con la cadenza delle pessime occasioni, quelle che sfumano. L’altro, Osimhen, corre a piazzarsi al centro dell’attacco, e di lì a poco segnerà il gol della sua “rinascita”. Mentre a lui tocca un altro pezzetto di piccola morte: l’ennesima partita di stenti, di fastidio, dolore, paure, opere (poche) e omissioni (tantissime). Alla fine saranno 11 i palloni toccati in 54 minuti passati a scattare qua e là, rimbalzando su un muro mentale e fisico. Una paratia invisibile che lo separa da quel che fu, che magari ancora sarebbe non fosse menomato, quasi zoppo.

Gli stessi che analizzano la cronaca cogliendo solo l’attimo che fugge ora stanno celebrando il ritorno di Osimhen, che nella restante parte di gara concessagli domenica sera ha piazzato un gol in corsa e un altro divorato a porta vuota. Dicono che al Napoli mancava proprio lui, Osimhen. E altrettanto, con la stessa foga, avevano argomentato quando Mertens aveva fatto gol al Benevento. Il ditino alzato: “la so, posso rispondere io? Gli infortunati, signora maestra. Ecco la dimostrazione di cosa sarebbe il Napoli senza gli infortunati”. Osimhen e Mertens. Li accomuna una specie di ricatto emotivo: ah, se li avessimo avuti entrambi quanta mestizia ci saremmo risparmiati. Quante ingiuste critiche allo sfortunato Gattuso.

Lo sconforto di Mertens che percorre quel corridoio invisibile verso la panchina è un alibi ambulante. Serve a contestualizzare le difficoltà della squadra, dipendente dal suo campione. Una volta osannato, quella dopo vilipeso per raggiunti limiti di età. Va così da sempre, nessuno se ne stupisce. È a suo modo un ruolo funzionale, il suo.

Ma fa una certa tristezza, vederlo così. Al netto del Napoli, indipendentemente dai risultati. Fa fatica, una di quelle fatiche palesi, che nel suo caso pesano il doppio. Perché il calcio di Mertens è sempre stato una folgore. Sprint, scatti, elettricità, invenzioni, istinto. Attimi, scosse, pensiero corto, adrenalina. Se sei bolso, si vede. Se ogni appoggio è una coltellata, il corpo va in protezione, resiste. E così quel gioco sorridente si trasforma in un lavoraccio da tornio e pressa. Contro il Sassuolo è rimasto in campo 69 minuti e ha toccato la miseria di 17 palloni. Uno ogni 4 minuti. Serviva così: non c’era nemmeno Osimhen, pronto ad alleggerirgli il destino. Era lui e lui soltanto il centravanti del Napoli, tocca far di necessità virtù se non miracoli.

Col Benevento Mertens aveva mandato in stampa le illusioni che il giornalismo maneggia al primo appiglio: gol, ecco è tornato. Un tic. Ma la vera faccia di Mertens è quella aggrappata alla dolenza, mentre lascia il campo col Bologna a portata di gol. Non sono bastate le andate e i ritorni dal Belgio, né gli impacchi di ghiaccio che puntualmente spuntano a fine partita su quella caviglia colpita ormai mesi fa. Avesse avuto più tempo, e meno acciacchi sedimentati, a Mertens avrebbero forse concesso l’agio di un recupero vero. Invece di queste prestazioni a consumo (il suo), a vagare per il campo quasi scroccando opportunità.

Mertens non possiede il dono dell’impermeabilità. Questa stagione martoriata da 1.440 minuti spalmati su 25 presenze, 6 gol e 7 assist, gli piove addosso come un acquazzone. Se non lo conoscessimo già per il portentoso bomber che è, sarebbe un indizio di quanta sostanza resta sotto il tappeto ogni volta che zoppica, stenta, sbuffa. Come uno spumante tappato. Non è semplicemente un mezzo servizio, è una trasformazione violenta. Ed è, anche, un sos scritto sul prato, visibile solo alzando il punto d’osservazione. Non una sola partita, né due, né tre. Ma più di due mesi così. Da quel 20 dicembre, data ufficiale dell’infortunio. E per le seguenti undici gare saltate, con al centro 17 minuti contro la Fiorentina e 30 contro il Verona. Quelle smorfie erano il primo grido di dolore, a metà gennaio, quando Gattuso e lo staff medico avevano azzardato un recupero poi smentito dalla realtà. La sua faccia mentre esce contro il Bologna ne è solo la continuazione con altri mezzi.

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