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Cosa succede a Roma quando si perde un derby

Il derby ha rotto il giocattolo di Fonseca. Nella Capitale il derby è una malattia mentale: in 5 giorni sono passati dal sogno scudetto all’esonero

Cosa succede a Roma quando si perde un derby

Quando basterebbe uno stagista. Un ragazzo volenteroso che tenesse a mente il regolamento, e sul punto intervenisse per evitare figuracce drammatiche. Eppure non è difficile: siamo professionisti, di mestiere giochiamo a pallone, alleniamo una squadra di calcio, la dirigiamo (esistono ancora i dirigenti accompagnatori? che astruso nome anglofono gli abbiamo dato su Linkedin?), il minimo è conoscere a memoria le regole del gioco, per quanto astruso sia. E invece gira quel video di Pallegrini che continua a ripetere a Fonseca e alla sua panchina: “Ma è il sesto, oh!”. Per la Roma è tipo uno snuff movie.

Sì, esce Ibanez, entra Futalo (indossando di fretta i guanti di gomma per lavare i piatti), ed è il sesto cambio. In quel preciso momento la Roma perde a tavolino, mentre ancora sta cercando di raddrizzare una sconfitta ai supplementari con lo Spezia. L’arbitro non interviene perché se pure stesse tenendo il conto, non è sua responsabilità, né del quarto uomo. Il melodramma isterico della Roma, l’ennesimo, è tutto là. Con il prequel delle due espulsioni in trenta secondi che pure avevano risvegliato dal letargo il telespettatore poco attento: ohibò, ma che combinano? Eh, niente: è la Roma che fa la Roma.

Perché la Roma, è ineluttabile, prima o poi finisce sempre per fare la Roma. Implode. E’ un classico. Le radio romane, le famigerate radio romane che discutono di calcio h24, sono a lutto. Appena una settimana fa sulle stesse frequenze s’accalcavano i sogni-scudetto, con le rivali mai in fuga e quel gioco frizzante di Fonseca che finalmente pareva funzionare. Poi venne il derby, di venerdì. Lo fanno, i derby: calano dal calendario due volte l’anno e sconvolgono tutto. A Roma lo fanno di più. Spogliano le anime e i caratteri, li denudano. La città non li regge più, l’ambiente si contorce, soffre, e se le cose vanno male viene giù tutto.

La Roma perde con la Lazio 3-0, in quel modo lì: gioca e gli avversari segnano. In contropiede. La demolizione teorica e pratica di quel castello disneyano che Fonseca progetta da un po’. E’ un trauma che innesca patologie irrisolte. Non è la prima volta.

Quello che succede a Roma quando si perde un derby ha poco a che fare con la retorica ballerina che una volta prova a mitigare gli scompensi che produce e la volta dopo li nutre nella speranza di domarli. Quello che in una conferenza stampa “è una partita come tutte le altre” in quella dopo “NON è una partita come tutte le altre”. E’ una malattia mentale. Nel campionato 1997-98 la Roma di Zeman ne perse quattro di fila, in cinque mesi appena, due in campionato e due in Coppa Italia. Se chiedi in giro, quei cinque mesi non esistono, c’è un buco. Rimozione, si chiama. Tutto quel che vediamo accadere in questi giorni ha già un nome nella letteratura scientifica.

La Roma del patatrac in Coppa Italia è la rappresentazione plastica di una piazza fragilissima, isterica. Che trasforma i giornalisti sportivi che la seguono in cronisti di nera. Spezia due volte in vantaggio, la rimonta, per non deprimersi subito e lasciare che la speranza faccia ancora più male a seguire. L’espulsione di Mancini e Pau Lopez, gli errori sotto porta di Borja Mayoral, la difesa in bambola. Il sesto cambio. Il cucchiaio di Saponara a sipario.

La Roma riesce a perdere una partita con lo Spezia, due volte: sul campo e a tavolino. Accumulando pure 120 minuti di tossine nei muscoli. E’ la seconda volta in 5 mesi che perde per questioni regolamentari, dopo il caso Diawara a Verona. E’ un record, pure questo.

Dal derby sono passati 5 giorni. Il 14 gennaio la Roma era quella che aveva pareggiato con l’Inter 2-2 e che non temeva di dirsi pronta – almeno quei poveracci dei suoi tifosi – a lottare per qualcosa in più. Il sempiterno e raggelante “Nun succede, ma si succede…”, che poi non succede mai. Il 20 gennaio sono al toto-allenatore: ballano le candidature di Sarri, del novizio De Rossi, o persino uno Spalletti-ter.

Non ci sono all’orizzonte ricostruttori, volenterosi, nessuno che metta in dubbio la crisi di governo di una squadra tradizionalmente ingovernabile. Basta guardare il teatrino dei Friedkin in tribuna, frastornati in conciliabolo, che faticano a raccapezzarsi sul regolamento, quando sarebbe bastato uno stagista a spiegare all’inebetito Tiago Pinto, in che modo la Roma stava perdendo faccia e partita. Uno che tenga il conto di quante volte è già successo, su una cartella clinica.

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