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Che ci fa Lozano nella palude del calcio italiano?

Non gli hanno spiegato che qui si gioca a due all’ora, e se non ti sbatti come fa lui è anche una questione di “rispetto dell’avversario”

Che ci fa Lozano nella palude del calcio italiano?

Lozano non ha capito niente. Continuava a rimbalzare sulle sponde di Napoli-Juventus come la biglia di un flipper, mentre tutt’attorno si muoveva una partita giocata da bradipi. Un attentato alla tranquillità di tutti, quasi insopportabile per chi stava utilizzando il primo tempo della Supercoppa Italiana per prendere sonno sul divano. Bonucci che passa a Chiellini, che passa a Bonucci, che ripassa a Chiellini e così via fino a quando il Napoli riprendeva palla per sopravvenuto torpore dell’avversario e cominciava il suo, di giro palla. Nel rallentatore agonistico che nelle interviste post-partita diventa “gara tattica”, il campo veniva trafitto da questo Sonic che non si capiva bene cosa mai volesse fare. Scatti, spunti, strappi, corse di qua e di là. Persino un colpo di testa in tuffo in anticipo screanzato sul difensore nemico. Per non parlare di un paio recuperi nell’area di Ospina a rinvangare le sortite romantiche di Cavani quando ripiegava a terzino per hobby.

Che Lozano sia un giocatore di un altro pianeta – se il pianeta è l’attuale Napoli di Gattuso – ce lo siamo detti. E ce lo ripetiamo a scanso di equivoci, a conferma della totale remissione dell’equivoco che l’ha costretto in panchina per un annetto. Ma il marziano resta tale, ed evidente soprattutto “quando il gioco si fa duro”. Che è un tic retorico tradotto malissimo in Italia: il gioco duro da queste parti è un pantano di paure, attese, ritmi sottodimensionati. E’ un agguato teso all’avversario in una palude, non l’attimo dell’esaltazione in cui ci si gioca tutto senza remore. A Lozano tutta questa teoria da guerriglia democristiana non l’hanno spiegata. Lui continua a fare quel che sa: sbattersi ad una velocità che gli altri non reggono, e che anzi rifuggono.

In Italia una finale con in ballo un trofeo, tra Napoli e Juve poi, si gioca a due all’ora. Un limite imposto, dicono, dal “rispetto”. Gattuso l’ha ripetuto più volte, ma non è un concetto inedito: se te ne stai accorto, se non azzardi, lo fai perché rispetti l’avversario. Una grammatica della competizione quasi “mafiosa”: buttarsi sconsideratamente all’attacco è un atteggiamento impertinente, irriverente, irrispettoso, insomma fa brutto. Lozano non s’è ancora adattato. Con quel modo naif di rendersi pericoloso pure quando “la tattica” imporrebbe invece l’annichilimento del ritmo, a volte pare un oggetto estraneo. Al calcio italiano, proprio.

Si potrebbe insinuare maliziosi che nella sua natura irrequieta si nasconde la rivoluzione che nelle intenzioni avrebbe dovuto innescare quando fu acquistato da Ancelotti per – ricordiamolo – soppiantare Insigne. Cambiare il paradigma: puntare sempre la porta dritti per dritti, in verticale. Fregandosene del sottobanco. Trattando ogni partita – sia il Crotone o la Juve – con la stessa voglia di spaccarla. Dato il contesto: una patologica perversione.

La sua indispensabilità attuale deriva proprio da questa sua franchezza espressiva, un po’ “ignorante”. Gli altri si trovano sprovvisti, il più delle volte, degli strumenti per fermarlo: i gialli a ripetizione che produce non sono un caso. Va al doppio della velocità del gioco medio. Senza rispetto. Un essere dall’insostenibile leggerezza. Un alieno, per davvero.

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