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Serve un Gattuso per tenere sul pezzo Gattuso: è il loop del motivatore

Anche lui non ne può più di schiaffeggiare la squadra. Ma un anno dopo è ancora fermo alle arringhe motivazionali. E si vede

Serve un Gattuso per tenere sul pezzo Gattuso: è il loop del motivatore

“Motivatori. Si affrontavano come leoni, si battevano in estenuanti tornei. Ma perché lo facevano? Chi li motivava a farlo? C’era qualcuno che li motivava? Motivatori di motivatori! Su Rieducational Channel“.

Se la teoria del loop funziona come la manovra a tenaglia temporale di Tenet, a breve il Napoli dovrebbe presentare un nuovo motivatore che motivi il già motivatore Gattuso ormai poco motivante. Per dare una scossa, tenere i giocatori “sul pezzo”. Un Gattuso per Gattuso.

L’anno scorso fu l’Atalanta a innescare lo scatafascio, quest’anno potrebbe essere stata la gara di Milano con l’Inter. Ma la sensazione di dejavu è straniante: la sconfitta ogni tre giorni, il ritiro. Un anno fa De Laurentiis catapultò Gattuso in sala stampa con tanto di etichetta ben appiccicata (“Ringhio Star”) per schiodare la squadra dal settimo posto. Gattuso disse che quella era una «classifica imbarazzante». Poi a luglio inoltrato chiuse il campionato al settimo posto, con l’imbarazzo evaporato con la calura. Ora, a dicembre, siamo tornati esattamente allo stesso punto di semi-crisi. Una partita di giro.

Se c’è una cosa che questa pandemia ha insegnato è che ci si abitua più o meno a tutto. Si chiama assuefazione. Lo shock reiterato non può produrre sempre lo stesso effetto, è la natura elastica dell’uomo. Figurarsi quella di un organismo plastico come una squadra, fatta di diverse anime e multiformi sensibilità. Se il piano era: schiaffeggiare un gruppo in catalessi un anno fa, per ritrovarcelo sano e autosufficiente adesso, beh, si può dire fallito.

Ieri De Zerbi, appena sfottuto dal Milan-senza-Ibra, s’è confessato in tv con una dichiarazione tenerissima: “Forse vedo i miei figli, i miei giocatori, più belli di quello che sono”. A Napoli la traduzione in scarrafoni belli alla mamma soja non è ancora stata ipotizzata. La diagnosi è psicologica, ha a che fare coi traumi irrisolti di un gruppo che non ha mai davvero chiuso un ciclo per passare al successivo. E per la prima volta nella storia recente di questa città isterica, anche l’ambiente – la stampa in particolare – l’affronta con una morbidezza inedita.

Gattuso il Motivatore è ancora allo stadio della paccheriata. Solo che i giocatori, a forza di porgere l’altra guancia, ora si ritrovano la faccia anestetizzata. Non fosse così, non dovremmo ascoltare la litania dei “musetti”, del “veleno” latitante, della “squadra che deve crescere”. Ancora e ancora e ancora. Il Napoli della marmotta.

Lo stesso Gattuso non ne può più, glielo si legge negli occhi, almeno in quello sano. Il Motivatore avrebbe voluto elevarsi da tutta la retorica sciatta dell’ardore agonistico, imporre piano piano un’altra immagine di sé, meno metanfetaminica. Coltivando l’ambizione del creativo, sentirsi riconosciuto come tale. Dai e dai, anche il più ostinato dei gladiatori ad un certo punto è costretto ad arrendersi: non va avanti il suo Napoli e non va neppure indietro. E’ in stallo. La partita malgiocata contro la Lazio trasmette proprio quello stato mentale: perso in quella maniera con l’Inter s’è afflosciato un po’ tutto.

La mancanza delle motivazioni è la kryptonite del Motivatore.

Che succede se anche il Motivatore perde motivazione? Perché il pericolo è quello, anche se Gattuso per indole sua e narrazione altrui, non lo ammetterà mai. Che si fa: prendiamo un motivatore che motivi il Motivatore? Come gli “spingitori di spingitori di cavalieri” di Vulvia-Guzzanti?

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