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Mandrake Corso all’ombra di Mazzola e Rivera

Colpi geniali, e il tocco a sorpresa da fermo apriva ogni porta. La foglia morta. Condusse il Napoli Primavera alla conquista dello scudetto

Mandrake Corso all’ombra di Mazzola e Rivera

In quei sedici anni all’Inter, tra il 1957 e il 1973, Mariolino Corso fu Mandrake.

In un angolo del campo, nel buio delle notturne al riparo dal vento e all’ombra nei pomeriggi di sole, Mariolino Corso giocava un calcio di fantasia estraneo agli schemi, una vera eresia.

Con l’aristocratico disprezzo d’ogni affanno, campione in attesa ai margini della distesa di pugnaci corrieri e lottatori inesausti, le spalle spioventi, l’addome tendente alla rotonda silhouette, Mariolino con passo felpato preparava il suo piede fatato, il sinistro, il piede mancino di divino portento, pigro ma magico all’istante.

Sprizzava faville. Si fermava il tempo a guardare.

Cominciava un’altra partita ondeggiante e sublime a quei colpi di vita d’artista quando il pallone più grigio giungeva nel cerchio d’ogni prodigio di Mariolino Mandrake, campione a fumetti negli spazi ristretti.

Colpi geniali, e il tocco a sorpresa da fermo apriva ogni porta. Foglia morta fu presto nomata la speciale giocata. Come foglia dal ramo, la palla s’adagiava nella casa violata d’ogni portiere stupito. Un colpo gagliardo, si usava farne al biliardo.

Eccolo, su un ritmo lento, il mio ricordo di Mariolino Corso, un’amicizia spontanea in quel giugno 1979 quando portò il Napoli Primavera di Di Fusco, Volpecina, Vincenzo e Raimondo Marino, Maniero, Borriello, Nuccio, Celestini, Della Volpe, Antoniazzi, Paolo, Spedalieri alla conquista dello scudetto, il primo nella storia del Napoli, il prodigio degli azzurrini di Mariolino Corso, un paladino del bel calcio antico.

Insensibile al clamore, restò ai margini della gran diatriba Mazzola-Rivera, Rivera-Mazzola, Mazzola-Rivera, il tormentone elegante degli anni Sessanta e Settanta. Da mattina a sera un ritornello solo: Mazzola e Rivera. E una rivalità sola: Rivera e Mazzola. Il derby di Milano e dell’Italia intera. Giouàn Brera, interista malandrino, definì Rivera abatino.

Rivera esaltava le masse col suo gioco di classe, la corsa leggera, il colpo di grazia, una carezza alla palla. Era stato ragazzo nell’Alessandria colorando di suo la grigia maglietta, già pronto per la grande ribalta.

Gianni non piacque allo staff juventino che lo giudicò grazioso da esibizione in giardino. Dall’allenatore Pedroni fu dirottato al Milan di tanti campioni.

Il bambino dai fitti capelli castani come aghi di pino si guadagnò una foto e la confidenza del grande Schiaffino. Aveva il piede per diventare l’erede del portento uruguagio. Lo schierò Viani al fianco di Sani, il brasiliano saggio d’ogni giocata, vincendo i dubbi di Rocco che l’avrebbe ceduto per un calciatore più nerboruto.

Rimase Rivera nella storia rossonera di gloria e vittorie. Paladino del gioco offensivo aveva leggeri garretti (per lui correva Lodetti), osteggiato dal campo del catenaccio imperante, accusato di correre poco con un fisico fioco. Pallone d’oro a Parigi, proclamò la giuria: “Rivera è poesia”.

Per vent’anni accuse e trionfi, infin la disdetta: in nazionale la famosa staffetta col rivale Mazzola.

Sandrocchio Mazzola era un nervoso levriero, un elettrico spirito, un centravanti guizzante, il dribbling speciale, i gol da manuale. Ballò due danze infinite davanti alla difese stupite degli ungheresi del Vasas e degli svizzeri a Berna. Avversari saltati, dribblati, evitati, pallonetti, la sua rumba a tacchetti.

In una sera viennese due gol ai “merengues”, l’orgoglio madrileno schiantato sul terreno della finale europea. Tra i difensori spagnoli Sandrocchio serpente piumato.

Vent’anni di vita interista. Si fece crescere il baffo perché il fisico sottile di magro attaccante assumesse sembianze di un sacripante. (6 – continua)

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