ilNapolista

L’esigenza di un Motivatore per il Napoli, è legata all’idea del lavoro che c’è a Napoli

Qui il lavoro è soprattutto fatica, sacrificio e sfruttamento, non un percorso che porta alla realizzazione di sé. Perciò non sono considerati gli allenatori che trattano i calciatori come microaziende quali sono

L’esigenza di un Motivatore per il Napoli, è legata all’idea del lavoro che c’è a Napoli
foto Hermann

Potrebbe essere interessante cercare di concedere al calcio qualche credibilità sociale, cambiare prospettiva e provare a capire, da un punto di vista storico e culturale, perché dalle nostre parti allenatori come Gattuso hanno avuto, hanno e probabilmente avranno maggior favore di pubblico di altri e per quale motivo squadre di giocatori che richiedono disciplina (leggasi ritiri) e preferiscono mostrare forti legami territoriali per poter lavorare al meglio, riscuoteranno maggiore simpatia di quelli che si mostrano più autonomi, individualisti e meno propensi a fare da bandiera.

La questione è incentrata sul lavoro e la sua evoluzione e su come, nell’ultimo secolo, esso sia mutato lungo due dimensioni cardinali: il suo potenziale creativo ed il suo essere strumento della autodeterminazione del singolo individuo.

Dopo gli inizi del Novecento, in cui si è discusso molto – e giustamente – del lavoro come alienazione del tempo della persona, la società moderna si è evoluta fino a riconoscere nella creatività una caratteristica fondamentale di un impiego. Un lavoro creativo è non solo una responsabilità etica della società che lo prevede e lo offre, ma anche un imperativo altrettanto etico del singolo che quel lavoro lo deve cercare e trovare. La creatività di una attività è la precondizione necessaria per concedere all’individuo la possibilità di adoperare quel tempo investito per acquisire gli strumenti necessari a interpretare il mondo e, con esso, la propria vita, come singolo e come parte di una comunità. È così che l’individuo, sentendosi utile, costruisce un proprio sistema di riferimento interno nel quale muoversi alla conoscenza del circostante. Sentirci utili, cioè ottenere un riconoscimento sociale attraverso il lavoro, non solo non è un peccato mortale (come il moralismo spiccio predica) o un valore specificatamente maschile (come un altro moralismo sostiene) ma è la carta che abbiamo tutti a disposizione per imparare a stare retti sulle nostre gambe senza incorrere troppo spesso nella paura di vivere.

Il lavoro, inoltre, è anche ciò che genera guadagno. Il danaro che esso produce – ossia i crediti che noi riscuotiamo – costituisce quanto è necessario a comprare il tempo di cui abbiamo bisogno a conoscerci e autodeterminarci. La vita dell’uomo è lunga e complessa e una rendita non è altro che la possibilità di un investimento futuro in cose, situazioni, circostanze, sviluppi della nostra esistenza che ovviamente non possiamo prevedere. Potremmo voler diventare padri di famiglia, cantanti di una band itinerante, professionisti del settore agricolo e drag queen, tutto e legittimamente nella medesima vita. Quanto guadagniamo serve a garantire, nella sua proporzione, la nostra possibilità di muoverci lungo queste molteplici e diverse direzioni dell’unica esistenza che abbiamo a disposizione. Se il danaro, quindi, non fa la felicità (perché non potrà sopperire ad una eventuale mancanza del talento necessario per essere felici), esso rimane tuttavia una componente necessaria e decisiva per la nostra personale lotta alla scoperta di noi stessi. Senza danaro, per dirla con le parole di altri, è molto difficile poter puntare a diventare ciò che si è.

La società moderna si è mossa, nell’ultimo secolo, attorno ai sopracitati principi cardine, portando sempre più in primo piano due fattori determinanti: l’individualità del singolo e la sua felicità –chiedendosi dunque se e come fosse possibile essere felici sul e del lavoro. L’essere umano del ventunesimo secolo ha l’obbligo morale di trasformarsi in principio creativo e guadagnare quanto egli ritenga necessario ad assicurarsi il tempo richiesto ad applicare quella creatività al fine di barcamenarsi tra le imperscrutabilità della vita: trarne piacere, imparare a conoscersi, infine vivere – che significa, in ultima istanza, imparare a saper morire con stile. Che è molto di più del famoso assicurarsi una buona pensione – azione politica grazie alla quale abbiamo solo alimentato eserciti di anziani depressi ai giardinetti.

Non ovunque questo discorso ha camminato alla stessa velocità. In Italia, specie al sud – ma non solo – il lavoro è rimasto fermo a paradigmi che ogni giorno di più mostrano i propri limiti storici. La riflessione culturale è rimasta bloccata all’idea della difesa del singolo dal mostro dello sfruttamento, che si incarna di volta in volta nello stato, nel privato, in tutto il mondo circostante: poiché il lavorare prevede il sacrificarsi, da una parte non bisogna lamentarsi troppo se l’impiego trovato è variamente precario, dall’altra all’uomo vanno previste una serie di regole che gli facciano da scudo in questa titanica operazione contro la naturale precarietà. Il lavoro a Napoli, dunque, crea generazioni di sadomasochisti. Attorno a questo concetto antico, su cui si sono cristallizzate generazioni e si sono sviluppate fazioni apparentemente opposte ma mutuamente strutturali (contratto o deregolamentazione, lotta per la sindacalizzazione o Far West dei diritti), il lavoro nel sud Italia è languito sempre più morente. Da un lato la mancanza di adeguate specializzazioni (basti come esempio la maggiore istituzione culturale di Napoli, la propria secolare università, e gli ultimi posti dove si ritrova annualmente secondo tutte le metriche), dall’altro la mancanza endemica di un vero mercato del lavoro, hanno fatto sì che il treno della modernizzazione abbia toccato rarissimamente le terre del Mezzogiorno.

Questo è il contesto in cui si sviluppa la cultura del lavoro in Campania e a Napoli. A mio avviso, in ragione di questa cultura si può spiegare il motivo per cui figure moderne di leadership, anche nel calcio, stentino a venire riconosciute come tali alle nostre latitudini. Se il percepire comune rimane ancorato alla equivalenza tra lavoro e sacrificio e se questo sacrificio non è neppure avversato ma compreso, il ruolo naturalmente richiesto alla leadership non può che essere quello del Grande Motivatore. Con tutto la sintassi e il vocabolario ad esso annessi: la ripetizione a generare la nausea, il posto fisso (anche in squadra) come riferimento all’orizzonte, la mitridizzazione costante come arma per vincere il veleno del mondo. È evidente, infatti, che nel momento in cui lavorare significa anzitutto superare l’enorme ostacolo del sacrificio ineluttabile (di ricoprire un ruolo banale, ripetitivo, noioso, disumano, mal retribuito, ecc.) allora è necessario che chi guida invochi la maglia sudata che rievoca da lontano le piantagioni di cotone. Tutto rientra, lo si capisce bene, nell’idea che, alla schiavitù fisica, si sia oggi sostituita un asservimento morale e psicologico – e tuttavia necessario a campare.

Il Grande Motivatore parla la lingua dei luoghi meno sviluppati. Dunque, anche di Napoli. Nella maggior parte del mondo che ha viaggiato, per motivi storici, ad un passo più spedito, esso è invece visto come una figura da Ancien Regime. Nel calcio, questo si traduce in ciò che i precedenti allenatori del Napoli hanno cercato di raccontare: nelle realtà più evolute, i calciatori sono sempre più imprenditori di se stessi, microaziende tutelate e autogestite. Una società di calcio è dunque l’aggregazione di molte di queste microaziende ed il ruolo del Grande Motivatore, in questo contesto, perde pressoché del tutto qualunque significato. Un leader moderno, prendendo atto dell’esistenza di queste microaziende, lavorerà a rendere ciascuna di esse profitable, le aiuterà cioè nel loro sviluppo singolo e autonomo e darà la giusta visione di insieme, in modo che il successo di squadra sia quasi un effetto collaterale del successo di ciascun elemento di un team. Per fare un esempio, mentre un tempo cambiare posto di lavoro era considerata una questione di lealtà individuale, oggi un lavoratore si aspetta che un manager lo aiuti nella ricerca del proprio sviluppo professionale anche aldilà e al di fuori della presente realtà aziendale. È così che un manager crea una rete di rapporti di lavoro che può utilizzare come vantaggio competitivo per la propria carriera.  Ed è per questo che un manager che non abbia, in qualunque momento, un gruppo virtuale col quale lavorare, è professionalmente morto.

A valle di queste considerazioni e considerata l’arretratezza della cultura del lavoro a Napoli (e oltre), è necessario che chiunque abbia l’ambizione di tracciare una strada abbia una esperienza internazionale, che trascenda i confini geografici e sociali della città. Non è infatti possibile imparare a Napoli ciò che a Napoli, di fatto, non esiste.

ilnapolista © riproduzione riservata