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Il colibrì di Veronesi è una Camera con vista

Un meccanismo endoborghese tra virtualità emotiva ed immobilità vitale. Credibile nella prima parte, futuristico nella seconda

Il colibrì di Veronesi è una Camera con vista

Questo tempo pandemico ci porta ad una lettura che avevamo rimandato: quella de “Il colibrì (pagg. 368, euro 18; La Nave di Teseo)” di Sandro Veronesi che con questo titolo ha vinto il Premio Strega 2020 doppiando il precedente alloro al Ninfeo di Valle Giulia conquistato con il romanzo “Caos calmo”.

Marco Carrera è il protagonista di questa saga personale e familiare, un oculista che attraversa il secolo scorso fino ai nostri giorni tra Firenze e Roma – eppoi ancora a Firenze -, con un vissuto pieno di dolori privati. Si comincia con la sorella maggiore Irene che si suicida ai Mulinelli a Bolgheri nella casa estiva: l’unica vera sensitiva della famiglia. Il padre, l’ingegnere Probo e la madre Letizia, l’architetto, sono due persone dissimili: una legata alla crescita, l’altra alla forma artistica. Marco ha un fratello Giacomo che diventa prof di meccanica e va via negli States, con cui non ha mai legato e dopo si capirà il perché.

Sbaglia anche matrimonio Carrera, sposa Marina, una hostess slava piena di infingimenti e ci fa una figlia Adele. L’infingimento fa parte anche della vita emotiva di Marco: lui ha sempre amato la ricercatrice di Letteratura Luisa, che va a Parigi e che lui vede solo in estate a Bolgheri. Poi altri lutti e la speranza affidata ad un improbabile “Uomo del futuro”.

“Il colibrì” – che è il nomignolo che viene dato da piccolo a Marco perché è un ragazzo minuto – narra di tutto questo ma è sostanzialmente una Camera con vista in un meccanismo endoborghese tra virtualità emotiva ed immobilità vitale. Credibile nella prima parte, futuristico nella seconda. Il romanzo a nostro giudizio si salva per la bravura del narratore sia linguistica che strutturale: la scelta dei flashback asincronici è tipica del migliore cinema ed anche della letteratura odierna che al cinema aspira. Solo un appunto da fare al romanzo: quel finale da letteratura potenziale alla Calvino non snatura i primi due terzi della narrazione? Non è un po’ un Deus ex machina che cala il commediografo per salvare l’intreccio di vite che scorrono parallele?

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