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Starnone: «Non sono stato un buon padre. Mi ha distratto la piacevolezza del mio lavoro»

Al Corriere: «La morte di mia madre a 44 anni è stata traumatica. Ha scardinato tutta la famiglia. Ho vissuto come una colpa tutti gli anni seguiti ai miei 44» 

Starnone: «Non sono stato un buon padre. Mi ha distratto la piacevolezza del mio lavoro»

Sul Corriere della Sera una lunga intervista di Candida Morvillo a Domenico Starnone, autore, tra le altre cose, di Via Gemito, con cui vinse lo Strega nel 2001, fresco di ristampa da parte di Einaudi e di Lacci, che Daniele Lucchetti ha riproposto di recente al cinema.

Racconta la sua infanzia.

«Sono stato un bambino timidissimo e spaventato dal padre. Quest’uomo ci metteva poco a perdere la pazienza, però non se la prendeva mai con me, ma sempre con mia madre. Poi, i momenti di violenza si moltiplicano nella memoria. Quelli rigorosamente accertati erano pochi, ma mi sono sembrati terribili».

Di suo padre Starnone aveva paura.

«Nella paura verso mio padre c’era una sovrastima, come se lui avesse il potere di trasformare le cose che gridava a mia madre nei miei stessi pensieri di bambino, come se a urlarle fossi anche io. C’era l’identificazione col padre e, tuttavia, il bisogno forte di schierarsi con la madre. Quest’ultima cosa non è mai accaduta».

Dice di non credere di essere stato un buon padre, a sua volta.

«Sono stato uguale a quello di Via Gemito. Non nell’aggressività, ma nella dominanza di una passione. Per lui, era la pittura, per me lo scrivere. Scrivere mi piaceva quanto insegnare e insegnare quanto scrivere. Forse, avere un buon rapporto coi figli significa non distrarsi facilmente e io sono stato un uomo facilmente distratto dalla piacevolezza del suo lavoro».

Starnone è stato spesso indicato come la vera identità di Elena Ferrante. Sul punto dice:

«Una storia banale, piuttosto consumata, che un tempo, mi avrebbe infastidito, perché avevo l’impressione che mi togliesse qualcosa. Ma ormai, vivo la questione come un gioco a cui sono più o meno costretti i giornali».

Nell’intervista c’è anche il racconto di come è diventato scrittore.

«Nella mia storia non esiste neanche un momento in cui scrivo qualcosa, cerco un editore, faccio la nota trafila. Da ragazzo, volevo fare lo scrittore, ma già intorno ai 22 anni, mi ero voluto considerare privo di talento. Era successo dopo aver scritto un lungo romanzo su un quadernetto, un pretenzioso scontro fra padre e figlio. Ero sposato da poco, vivevo di lezioni private, mi sbrigai a laurearmi, accantonai l’idea di scrivere e andai a insegnare. Poi cominciai, occasionalmente a fine anni 70, a lavorare per Il Manifesto. Dopodiché, trasformo una rubrica in una specie di diario da prof. Il suo successo porta il giornale a farne un libro e questo produce eventi a catena. Silvio Orlando mi cerca per portare Ex Cattedra a teatro e sono io a scrivere l’adattamento. Daniele Luchetti ne fa un film, La Scuola, che scrivo io con Rulli e Petraglia e, dato il successo, parte una carriera da sceneggiatore. Di passaggio in passaggio, quello che capitava è coinciso con quello che volevo. Peccato solo che, a un certo punto, ho dovuto smettere d’insegnare».

Sulla didattica a distanza:

«La scuola non andrebbe mai chiusa, poi, il tema sarebbe capire cosa nelle scuole si fa. Tuttavia, il Covid c’è e ci sono problemi che scavalcano tutti gli altri e il primo in assoluto è tenersi in vita».

Parla della morte della madre, quando aveva solo 44 anni, come di un evento traumatico.

«Ha avuto una trasformazione fisica intollerabile e la sua scomparsa ha scardinato tutta la famiglia. Io, tutti gli anni seguiti ai miei 44 li ho vissuti come una colpa: ancora faccio un rapido calcolo e mi dico che ne ho rubati 33. Da bambini, morire è come quando si gioca ai cowboy, ci si stende per terra e si è morti. Invece, la scoperta della mortalità coincide con la perdita di fiducia nel corpo».

Continua:

«La verità è che la vita mi piaceva molto e la concretezza della morte mi ha fatto sentire a rischio la gioia di vivere. Poi, più insegnare e scrivere mi riempivano e più quel pieno rendeva meno preoccupante il vuoto della sparizione».

E conclude indicando cosa conta di più per uno scrittore.

«Augurarsi di non aver sciupato la propria esperienza».

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