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La dittatura degli highlights ci trasforma in “tifosi occasionali”

Bellissimo editoriale del Guardian sulla fruibilità degli eventi: abbiamo poca pazienza e ci accontentiamo dei bignami. Ma ci sono sport – come il tennis o il ciclismo – che così si perderanno

La dittatura degli highlights ci trasforma in “tifosi occasionali”

Secondo una ricerca di Microsoft la nostra capacità di attenzione media è scesa da 12 a 8 secondi, dal 2000. Siamo meno pazienti ora di quanto lo siamo mai stati. E lo sport è costretto a farci i conti. Perché la riproduzione video dei contenuti è diventata – ora più che mai – il grande link che unisce il pubblico agli eventi. E per tenere agganciata allo spettacolo una generazione abituata a vivere la realtà sullo schermo degli smartphone, in formato gif, bisogna comprimerlo, accelerarlo. Altrimenti, semplicemente, la gente si annoia. Viviamo, e sarà sempre di più così, nella dittatura degli highlights.

Il punto, molto interessante, è sottolineato da un editoriale di Jonathan Liew sul Guardian. Non tutti gli sport riescono ad adattarsi alla compattezza frettolosa, al bignami da consumare espresso, veloce, ovunque. Il calcio non ha molti problemi, in tal senso. Vive da anni di riassunti, di “azioni salienti”. Ma gli altri?

L’articolo fa l’esempio del tennis. “A quanto pare, la finale maschile degli US Open è stata incredibile. Ma io ho visto solo i punti migliori”, scrive Liew. “E’ di gran lunga il modo meno soddisfacente di guardare una partita di tennis. Per qualche ragione il tennis è sempre stato stranamente resistente agli highlights: un gioco fatto di attimi e crisi infinite, dove ogni punto di svolta apparente preannuncia semplicemente il prossimo, dove i suoi passaggi più epici sembrano come se il mondo stesse finendo ancora e ancora e ancora. Ridurre tutto questo sembra in qualche modo sbagliato, non fedele: come cercare di riassumere Like a Rolling Stone in un grafico a torta. E’ il dono eterno e la maledizione del tennis, uno sport che rivela le sue verità lentamente: piani gradualmente rivelati e decifrati, partite di scacchi all’interno di partite di scacchi”.

La costruzione artigianale del collage di azioni da rivedere diventa di cruciale importanza: diventa una scienza, se non un’arte, in un panorama zeppo di eventi sportivi da raccontare, di opzioni di visualizzazione in continua espansione e capacità di attenzione in continua diminuzione.

Tom Richardson, docente di media digitali alla Columbia University, lo descrive come il “complesso industriale più importante”: una tempesta di smartphone di messaggistica istantanea, gif e video in formato ridotto che rappresenta il mezzo di con cui gli under 40 consumano la visione dello sport.

“E questo è il dilemma con cui tutti gli sport sono alle prese: come adattare il prodotto a un pubblico che non vuole sedersi davanti a un televisore per molte ore? E come condensare lo sport in pratici bocconcini senza smarrire la sua stessa essenza?”

E così come il tennis ha enormi problemi sotto questo aspetto, per lo stesso motivo “il ciclismo resta ostinatamente irriducibile: non ha senso mostrare un arrivo in volata o una fuga decisiva, ad esempio, se non si riesce a cogliere le ore di lavoro certosino che li hanno impostati”.

“Per gli sport che cercano di rianimare flussi di entrate avvizzite in un mercato in rapida evoluzione, queste sono questioni di sopravvivenza. In un certo senso, gli highlights sono l’ultimo cordone ombelicale tra uno sport e quello che definiamo così imprecisamente come il “grande pubblico”. Nella misura in cui è persino possibile essere un “tifoso occasionale” di qualsiasi cosa, il video in formato breve è l’unico modo realistico per farlo”.

E poi: “se c’è un’arte nel produrre i momenti salienti, allora c’è sempre stata anche un’arte nel guardarli. Questa cultura ci spinge a vedere la parte piuttosto che il tutto”.

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