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Il calcio ha fatto il miracolo: il virus è mutato, ora è un semplice infortunio

Due settimane di stop e via, non ci si ferma più. Ma la vicenda De Laurentiis insegna: il contagio ora è una colpa, e ce la prendiamo con i “privilegiati” super-controllati mentre il problema resta chi il tampone non se lo fa

Appena quattro-cinque mesi fa il campionato si dibatteva tra la sua voglia di dirsi industria e un ignoto fatto di morti ancora caldi. Nell’immaginare il futuro prossimo ricorreva una domanda che oggi fa quasi tenerezza: “Se spunta un positivo che succede?”. L’estate inaspettatamente karaoke Guantanamera ha dissolto i dubbi: non succede niente. Di positivi ce ne sono a bizzeffe. I calciatori – per lo più di ritorno dal focolaio ufficioso di Ibiza – vanno in quarantena a multipli di tre, sempre con la stessa didascalica definizione: “stanno bene, tutti asintomatici e in isolamento”. Gli allenatori, dal Gasperini in trasferta in Spagna al Mihajlovic in trasferta in Sardegna, hanno scoperto di non essere immuni. E a coprire la quota dirigenziale è arrivata la positività di Aurelio De Laurentiis, con tutto il suo peso caricaturale, la narrazione delle ostriche, l’ostentazione dei luoghi comuni.

Ci siamo, per la tenuta delle competizioni il virus è mutato in infortunio: tampone, un paio di settimane di quarantena, tre giornate saltate, e via di nuovo in campo. A rotazione, finché i numeri lo consentiranno. Petagna, il mattatore di Napoli-Pescara, è un ex-positivo. Uno dei tanti. Il calcio s’è riposizionato più avanti del resto della società, ingolfatasi invece nella discussione iperreale sulle regole d’ingaggio delle scuole in riapertura. Ma non sfugge – ed è il punto segnato dalla fuffa accessoria nella vicenda De Laurentiis – alla nuova fase della pandemia italiana: i sensi di colpa, in versione attiva e passiva.

Il contagio non è un passaggio gratuito. Porta con sé il dubbio di esserselo meritato, con comportamenti non consoni e ligi, non rispettosi dell’altrui sanità, ontologicamente sospetti. Il virus è un timbro morale: qualcosa avrai fatto per essertelo beccato, su. Dal ragioniere del catasto positivo per non essersi lavato le mani a Briatore e i suoi giovani untori del Billionaire non c’è scappatoia, il dolo è insito nella malattia. E anche nell’inconsapevolezza non trovi salvezza, se sei positivo ogni tuo gesto verrà esaminato a ritroso fino al momento in cui hai abbassato guardia e mascherina, hai starnutito, hai preso un caffè a meno di un metro da un collega che dieci giorni prima ballava sui tavoli in Costa Smeralda. La Var dell’inquisizione funziona perfettamente con il personaggio pubblico, che in quanto tale deve rispondere al popolo di rientro dalla villeggiatura in una piazza piena a fare tutto quello che non si poteva – perfino ballare un reggae in spiaggia.

Niente di nuovo, è solo la  vecchia realtà rielaborata con i parametri della responsabilità sociale in tempi di crisi sanitaria. Il lockdown che doveva renderci migliori ci ha reso prevedibilmente solo cacofonici.

Questa gestione isterica e squilibrata della “seconda ondata” ce la stiamo pure rivendendo all’estero quasi come un’eccellenza del territorio. Come la pizza e la mozzarella: ah, come l’abbiamo sfangata noi, nessuno. Guarda gli americani, fanno la bolognese col ketchup e sotterrano morti a centinaia di migliaia, quegli zoticoni. Nel frattempo però facciamo i conti e tiriamo le somme con categorie sociali e professionali super-controllateDe Laurentiis in linea con i protocolli della Serie A si sottopone a un tampone ogni 4 giorni, e quelli come lui difficilmente faranno troppi danni alla società – mentre i traghetti di ritorno dalla Sardegna sfornano vagonate di macchine che non si fermeranno ai drive-in, di ragazzi asintomatici che si mettono la coscienza in pace con un sierologico una tantum, di professionisti che “non si possono permettere” di rischiare uno stop di 15 giorni all’attività lavorativa. Meglio non sapere. Nel frattempo dagli al miliardario cafone che parla come nei cinepanettoni.

E’ il colpevolismo agonistico che s’applica a quelli che non mangiano il panino con la mortadella a Ladispoli (cit.) e quindi gli tocca l’aggravante dell’antipatia sociale. Ma per tutti vale la regola aurea: positivo e colpevole, chi più chi meno. Anche vittime, certo, ma soprattutto carnefici.

Il calcio che per tribolate settimane s’era arrovellato su decaloghi e linee guida, regolamenti e casistiche, ha abdicato come il resto della società (quest’ultima a sua insaputa): i positivi sono tra noi, per fortuna i più vivi e vegeti. Li contiamo ancora ogni giorno perché ci fa stare meglio, è un retaggio del lockdown: il drammatico bollettino delle 18, quando la Protezione Civile estraeva i numeri; l’indimenticabile Gallera che snocciolava defunti e degenti come nelle telepromozioni dei materassi e dei cambi Shimano. Sembra passata una vita. E invece ne sono passate tante, ma era appena tarda primavera.

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