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Ha vinto Maldini, l’aristocrazia al potere per la rinascita del Milan

Il fuoriclasse che litigò con gli ultras, ha superato le congiure, sta imponendo il suo stile e costruendo una signora squadra: Ibra, Tonali, Brahim e forse Chiesa

Ha vinto Maldini, l’aristocrazia al potere per la rinascita del Milan

Nella repubblica indipendente di Totti, quella governata da un’elite di ex campioni che hanno preso il potere del calcio occupando panchine e poltrone dirigenziali a vario titolo, Paolo Maldini sarebbe il Presidente. Silenzioso, altero, aristocratico, marziale. In attesa che l’utopia del Capitano resa a Paolo Condò si compia e lo richiami dal parcheggio di Trigoria nel quale aspetta il figlio dopo l’allenamento e un caffè offerto da Friedkin, Maldini ha conquistato il Milan. Imponendo alla Serie A (che manco se n’è accorta) il suo modello dirigenziale quasi mormone, disinnescando congiure e troppe chiacchiere stampate a vanvera.

Il Milan post-pandemico è una specie di miracolo sbocciato da un papocchio. Ed è tutta opera sua: il filotto vincente di Pioli, il reso preventivo del progetto tedesco di Rangnick, la ricostruzione. Il Fondo Elliott s’è arreso a un destino da s-fondo finanziario, costretto ad un passo indietro d’immagine. Lasciar fare a chi sa, ed ecco il risultato, in formato elenco.

In quota a Maldini (e Boban) vanno registrati i colpi Bennacer (preso a 16 milioni, ora vale il doppio) e  Theo Hernandez scartato del Real per 20 milioni. Anche il mezzo pacco Piatek rivenduto a 27 milioni dà il senso delle abilità manageriali. Poi c’è il resto, il fiore: Ibrahimovic è arrivato per Maldini, e per lui resta, a garanzia della credibilità umana che Eliott non può avere, proprio fisicamente. Brahim Diaz, sempre dal Real Madrid in prestito secco per un anno (il Real sta imparando, Theo brucia), il possibile ritorno di Bakayoko. Ovviamente Tonali che da piccolo rossonero s’è votato alla irresistibile chiamata di Maldini invece che finire all’Inter. E ora il calciomercato dice persino Federico Chiesa che si è sempre dichiarato tifoso di Kakà e Sheva (ma quello è un tic, “ho sempre sognato di vestire questa maglia è un refrain abusato) per il quale Commisso chiede 60 milioni e Maldini è pronto per ora a offrirne 25 più Paquetà e il 40% del diritto di ricompra che la Fiorentina vanta ancora su Rebic (detta così sembra il mercato della Longobarda, in cui a Canà venivano promessi mezzi Zico e trequarti di Maradona).

Ma questi sono tecnicismi, buoni per il tifoso del Milan blandito da prospettive di successo che non annusava da tempo. Solo che è lo stesso tifoso a dover fare i conti con la manifattura di questo mezzo miracolo ancora in costruzione: è un Milan made in Maldini. L’anti-ultras verticale che l’aneddotica ancora ricorda a Malpensa a chiamare “poveri pezzenti” i tifosi incazzati dopo la disfatta di Istanbul. Gli stessi che gli rovineranno l’ultima partita a San Siro, fischiandosi vicendevolmente mentre srotolavano gli striscioni dell’ignominia. Li riportiamo per dovere di cronaca e malcelato sadismo:

“Per i tuoi 25 anni di gloriosa carriera sentiti ringraziamenti da chi hai definito mercenari e pezzenti”

“Grazie capitano: sul campo campione infinito ma hai mancato di rispetto a chi ti ha arricchito”

Dolente, Maldini si spiegò così (non avendo tra l’altro alcuna voglia di spiegarsi, né pensando di doverlo fare):

 “Avevamo giocato una finale stupenda, nettamente meglio del Liverpool. All’aeroporto siamo stati contestati: dovete chiederci scusa. Io giocavo da una vita e dovevo chiedere scusa ad un ragazzo di 20 anni? E poi scusa di cosa? Di aver perso una perso una partita giocata in modo straordinario? Per inciso, quella sera il Liverpool ci surclassò a livello di tifo”.

Il Maldini che ora conduce il Milan in questa terra inesplorata da un po’ (troppo, per loro), è lo stesso che scrisse un lungo post su Facebook per giustificare il suo no alla fu proprietà cinese, rifiutando di diventare un sottoposto del direttore sportivo Mirabelli. Chiosando così:

“Ribadisco anche che i miei valori e la mia indipendenza di pensiero saranno per me sempre più importanti di qualsiasi impiego”.

Maldini, composto pure quando marcava Maradona, ha infine imposto quasi una dittatura morale. S’è smarcato (conosce il mestiere, diciamo) dagli equivoci del primo anno con Leonardo e Giampaolo e naviga ora sul mare della credibilità. Quella che non ha mai accennato a perdere, figlia di un carisma e di una rettitudine che gli riconoscono – per negazione – persino gli ultras, i “poveri pezzenti” che si illudevano di arricchirlo.

Poi, è chiaro, la stagione che s’apre a seguito di una tumultuosa ripresa estiva del campionato potrebbe rivelarsi un altro mondo, smentendo tutto sto po’ po’ di premesse. Ma si fa ricorso ancora all’aneddotica per ricordare la mistica del primo provino in rossonero del figlio di Cesare Maldini, quando l’allenatore dei pulcini chiese a così tanto padre “Dove vuole che lo faccia giocare?”, sentendosi rispondere “Faccia lei”. Cesare si voltò e se ne andò. Chi è cresciuto, e vinto, in tanta sobrietà non teme mica il futuro. Semmai lo costruisce a sua immagine e somiglianza.

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