Il prestigioso quotidiano cita Lampard, Arteta, Solskjaer. A certi livelli è richiesto più fiuto politico, retorica, tocco morbido che insegnare calcio. Le eccezioni Klopp e Guardiola
“Zidane, in confronto a Pirlo, era un veterano brizzolato quando ha sostituito Rafael Benítez al Real Madrid”.
L’esperienza non vale più, le logiche del calcio adesso puntano in un’altra direzione e l’elezione di Pirlo a tecnico della Juventus si innesta in un trend ormai perfettamente riconoscibile, tanto da diventare oggetto d’analisi sul New York Times. E’ un battesimo.
Scrive il Times che “a prima vista, è difficile interpretare la scelta di Pirlo come qualcosa di diverso da una scommessa spericolata. Il pensiero di Andrea Agnelli, il presidente della Juventus, è abbastanza opaco da far sorgere il dubbio che Pirlo potrebbe tenere in caldo la panchina fino a quando il grande amore non corrisposto del club – Pep Guardiola – non sarà disponibile“.
Ma ci sono altre due letture, forse più veritiere:
“Un cinico potrebbe suggerire che la nomina di Pirlo sia una naturale conseguenza della decisione del club, nel 2017, di cambiare il suo stemma, una mossa che avrebbe dovuto significare che la Juventus non era più solo una squadra di calcio. Dopotutto, Pirlo è esattamente il tipo di coach di un brand digitale in grado di offrire esperienze di lifestyle“.
“Ma c’è un’altra possibilità: che non ci siano secondi fini, nessuno schema astuto, nessun impulso istintivo, nessuna decisione presa mentre la rabbia di venerdì sera era ancora calda. È possibile che Agnelli e i suoi colleghi siano giunti alla conclusione – controintuitiva, ma non del tutto incoerente – che non tutte le esperienze sono uguali”.
L’autorevole quotidiano mette in parallelo l’esperienza di Zidane al Real con la scommessa Pirlo: la gavetta non serve più. Gli allenatori che fanno la trafila classica ormai seguono una carriera parallela che raramente li porterà in un superclub. I quali invece ora funzionano con logiche diverse.
“La stratificazione del gioco negli ultimi dieci anni ha reso obsoleto il modello dell’allenatore che fa la gavetta”. “Le abilità richieste per prosperare nei grandi club sono diametralmente opposte agli ambienti stessi: è richiesto un tocco morbido e un fiuto per la politica, visione globale e retorica da demagogo”.
Esempio Zidane. “Al Marsiglia un allenatore potrebbe dover correggere la tecnica; al Real Madrid, almeno uno dei predecessori di Zidane ha detto che il semplice sussurro di un consiglio veniva considerato un segno di mancanza di rispetto”.
“C’è una manciata di allenatori, ovviamente, con il talento e la reputazione per cavalcare quei mondi. Guardiola è sia insegnante che ispirazione, così come Jürgen Klopp. Fino a poco tempo fa, José Mourinho sarebbe rientrato nella stessa categoria. E così Zidane adesso. Ma per la maggioranza, il confine è difficile da superare. Lo stesso Sarri è un buon esempio: eroe a Empoli e Napoli, negli ultimi due anni è stato considerato un fallimento sia al Chelsea che alla Juventus nonostante abbia vinto due trofei in due anni. Stessa sorte è toccata a Ernesto Valverde al Barcellona e Niko Kovac al Bayern Monaco. Nessuno di loro è un cattivo allenatore. Semplicemente non erano buoni allenatori per un superclub”.
“L’élite del calcio va sempre più in questa direzione. È da tempo che i grandi club preferiscono scegliere gli allenatori all’interno piuttosto che concedere all’allenatore di una squadra più piccola la possibilità di un passo avanti. Ora quella tendenza sta raggiungendo il suo apice. Manchester United, Chelsea e Arsenal hanno tutti allenatori con relativamente poca esperienza; nello scegliere Ole Gunnar Solskjaer, Frank Lampard e Mikel Arteta hanno puntato sul background del candidato più che sul curriculum. Se un Guardiola o un Klopp non sono disponibili, allora un giocatore che ha appena smesso di giocare con carisma e autorità ha le stesse probabilità – se non di più – di avere successo come allenatore rispetto a uno che si è fatto strada dal basso. Pirlo ne è un esempio estremo, non avendo mai allenato”.