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Che cosa sarebbe Neymar se non giocasse a sprecare il suo talento

Ha devastato da solo la “favola” Atalanta, ha regalato perle come quei due tunnel, e ricordato a tutti perché è insopportabile: perché vuole rovinare quel che la natura gli ha donato

Che cosa sarebbe Neymar se non giocasse a sprecare il suo talento

Per una sera la luce riflessa indugiava sugli avversari. Un primo tunnel, poi un secondo. Perle tecniche che sempre più raramente vediamo a certi livelli. Attonito, in un stadio silenzioso di Lisbona, Neymar si guardava attorno per cercare di dare un significato a quell’inconcepibile vuoto che era la partita, il contesto, persino la sua carriera. Stava perdendo, un’ennesima volta, pur dimostrando in mondovisione la sua superiorità. Ma non tanto da distogliere la meraviglia di tutti dall’Atalanta che l’1-0 proiettava in una semifinale di Champions a dispetto del PSG miliardario e della pandemia infame. Le favole funzionano così, ti si attaccano addosso da bambini e per il resto della vita mortificheranno la realtà nella retorica: il racconto, la narrazione, prima della sostanza. La rivincita sportiva della piccola provincia italiana devastata dal virus (i camion dell’Esercito pieni di morti), dopo 80 minuti di calcio in purezza giocato dal più cristallino e scemo talento degli ultimi 10 anni, era l’unica storia da raccontare. L’avrebbe detto a posteriori, quando tutti si fanno maestri figurarsi lui:

“Era impossibile pensare che saremmo stati eliminati. Non ci ho mai pensato”

Eppure il PSG non raggiungeva una semifinale Champions da 25 anni, prima ancora che il Qatar ci investisse i miliardi del petrolio. Con o senza di lui. Forse non era così impossibile da considerare l’ipotesi dell’eliminazione… Ma Neymar spesso parla come tratta il pallone, veloce e affilato, soprattutto d’istinto. Oltre il 90′ ha rapito infine quei benedetti riflettori, manco segnando i due gol decisivi. Semplicemente – per lui è così, le imprese o sono irragionevolmente semplici o non sono affatto – giocando ad un livello che gli altri ammirano e perlopiù invidiano.

Volendo restare nell’allegoria delle favole Neymar è un cattivo del calcio. Ha accumulato su di sé una mistica della malvagità che riassume tutti i vizi più insopportabili delle star: la dissoluzione, le dichiarazioni fuori posto, i “picci”. Bigia gli allenamenti e poi corre a piangere in conferenza stampa, tira una manata a un tifoso parigino, si fa squalificare in Champions per aver insultato su Instagram l’arbitro di United-PSG, l’immancabile accusa di stupro, varie ed eventuali. Dove, tra le varie, occorre ricordare le decine di partite solamente sfiorate dalla sua presenza, abulico e appena sufficiente. E tra le eventuali, le commedie dell’arte recitate ad ogni colpo preso, con tuffi e capitomboli ormai leggendari.

C’è una foto dell’ultimo Mondiale che ritrae per tutte il talento deriso, la sceneggiata oltre la ragione: Neymar rannicchiato a terra, in posizione fetale, sconvolto da un dolore irresistibile, col pallone in grembo. Behrami in piedi davanti a lui, che lo indica ridendo come a dire: “Ma che è successo? Gli hanno sparato?!”.

behrami neymar

Quello è il Mondiale dello spreco, per Neymar. E badate bene, “spreco” è la parola chiave, l’imputazione mai condonata che il popolo dalla facile indignazione non sopporta. Uno così, che devasta l’Atalanta in quel modo, e prima di lei più o meno chiunque gli sia passato davanti in una serata di voglia, non può essersi buttato via, ancora giovane. Perché la percezione generale è proprio che Neymar sia un alieno, che valga in potenza tutti i 222 milioni che costò per trasferirsi in Francia (facendo vendere 10.000 magliette in due giorni). E che vendendosi l’anima al soldo, all’ipervalutazione di mercato, sia finito in un imbuto: potrebbe fare del calcio mondiale un’infinita Atalanta, e invece si scoccia.

“O Ney”, che taluni chiamano così senza tema di blasfemia, ha trasformato il calcio in uno sport individuale, ma ha vinto tutto o quasi solo quando ha fatto parte di una squadra, il Santos o il Barcellona. La deviazione in Francia ha tradotto questo suo egotismo in una identità di gruppo: Neymar è il simbolo perfetto di un PSG montato come un puzzle di dive, impossibile da comporre con giudizio. Ognuno proiettato a dribblare il proprio specchio. Un insieme di singoli che infatti, e spendi e spandi, ha portato a casa solo titoli francesi. Un calcio cosmetico, appena sfiorato dai dubbi del Fair Play Finanziario, che lo etichetta incompleto nonostante il palmares accumulato: tra l’altro tre campionati paulisti, una Coppa Libertadores, due campionati spagnoli, una Champions e un Mondiale per club. Con Messi e Suarez ha fatto parte del tridente più prolifico della storia del Barca, che è prolifico oltremisura per definizione.

Uno così, poi, batte quasi da solo l’Atalanta a 28 anni, e siamo ancora qui a stupircene. A sottolineare una serata per niente scontata, perché le moine e i bronci, ancor più che la sovrastruttura finanziaria che se l’è mangiato, ce lo raccontano dissoluto e svogliato. Un imperdonabile sperpero nel pieno della maturità anagrafica.

La prima semifinale di Champions del PSG da un quarto di secolo a questa parte va in conto a lui. Al suo talento quasi opprimente. Se non fosse usurata, la definizione di genio e sregolatezza lo vestirebbe a pennello. Lui, fisiologicamente impossibilitato a contenersi, in campo come nella vita pubblica, ha già sentenziato che “il PSG vincerà la Champions”. Per altri sarebbe un problema tener fede alla promessa, magari evitando l’ovvio rinfaccio in caso di sconfitta. Per lui no, perché ad ogni tunnel, ad ogni dribbling, ad ogni difensore saltato con una scioltezza micidiale, Neymar trasmette un’incontestabile alterità. Se ne fotte, in pratica.

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