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Da Franti a Cantona, a Mihajlovic: nella vita (e nel calcio) c’è bisogno dei cattivi

Siamo nel mezzo di una dolorosa gentrificazione morale del pallone. Sinisa si ribella alla santificazione buonista. Lasciateci la corsa smadonnante di Mazzone e il raptus di Delio Rossi

Da Franti a Cantona, a Mihajlovic: nella vita (e nel calcio) c’è bisogno dei cattivi

Gasperini fa un po’ tenerezza. S’è appena preso una raffica di cazzi e vaffanculo, che i media di lì a poco riporteranno come “C..zzi” e “Vaff…” enigmisticamente molto più accettabili. Mihajlovic lo ha fatto espellere, per giunta: “Buttalo fuori!”. E lui, Gasperini, al massimo della collera, punta il dito contro la panchina del Bologna e sbotta: “Oh, tutti a far caciara qua!”.

Come il pensionato in mascherina che se la prende con la movida in assembramento. Manca il “perdindirindina”. “Ora vi mando tutti dal preside”, ma il contesto è un altro. Volano – repetita iuvant – cazzi et eccetera. La reprimenda Mihajlovic gliela rinfaccia poi nelle interviste post-partita:

«Se quel gesto col dito lo faceva a me non so se il dito ce l’aveva ancora»

Atalanta-Bologna, grazie al voyeurismo garantito dalle porte chiuse, ha così disinnescato lo sbadiglio del telespettatore, riportando tutti alla dimensione feroce del pallone. Quella che eccita le persone perbene, e se uno grida “rissa!” corrono tutti a vedere. Per poi dirsene un po’ schifati, rimettendo a posto il bilancino morale.

Sinisa Mihajlovic pare stia facendo di tutto per ribaltare la retorica della pietà che lo avvolge da quando ha annunciato di avere la leucemia. Il cattivo resta cattivo, gioca a fare il cattivo, di più se si ostinano a raccontarlo buono. Più inzuppi la narrazione nel miele, più lo perdoni, più lui affonda. “E quell’infame sorrise”, come Franti nel Libro Cuore. Umberto Eco ne ha scritto l’elogio, perché il calcio – come la letteratura, come il mondo – ha bisogno dei cattivi. Servono a rendere i buoni davvero buoni, a volte un po’ ridicoli ma ancor più struggenti.

Mihajlovic, con tutto il suo carico di mai smentita partigianeria misogina e fascistoide, è indispensabile. Parla alla pancia del Paese, come si dice, guardando negli occhi l’avversario di turno. In pochi giorni ha messo a verbale che avrebbe mandato “qualcuno a gonfiare Insigne in albergo” prima di Bologna-Napoli, “così non gioca”, chiedendo poi al suo amico Ibra “un occhio di riguardo per un povero malato” prima del match col Milan. Franti, di nuovo: “quell’infame sorrise”. E noi con lui, pur consapevoli dei ruoli: lui cattivo, noi buoni. Il codice binario dell’etica nello sport fa gioco, anabolizza il circo. Ne sono pieni tomi di aneddotica.

Cosa sarebbe il calcio volante senza Cantona, per esempio. La vendetta sul tifoso insopportabile che è autorizzato – quando ancora poteva accedere alle tribune – a scarognare su tua madre e tu zitto sotto. No. Cantona spezzò un incantesimo, e divenne ancor più idolo. Si beccò otto mesi di squalifica e 20 mila sterline di multa, più due settimane di carcere per aggressione commutate in 120 ore di servizi sociali. E non se n’è mai pentito.

Nel 1987 al Ferraris contro la Samp “el caudillo” Daniel Passarella, capitano dell’Argentina campione del Mondo nel 1978, prende a calci il raccattapalle che perde tempo. Oggi sarebbe finito su Instagram in un trionfo di cuoricini, all’epoca gli diedero 6 giornate. Ma è un esempio di come quella vena che si chiude rappresenti l’altra faccia (quella brutta sporca e cattiva) del nostro perbenismo. Mentre affiliamo i social per chiedere la cancellazione del male dal dibattito pubblico, abbiamo bisogno di Carletto Mazzone che corre smadonnando sotto la curva dell’Atalanta per farsi giustizia da sé.

Cerchiamo smaniosi il “rumore del nemico” di Mourinho, Zlatan che urla in italiano a Pep Guardiola (al suo ultimo anno al Barcellona):

«Sei senza coglioni, ti caghi addosso di fronte a Mourinho. Ma vaffanculo».

Insegniamo ai nostri figli che perdere è bello, se ci si diverte, ma poi applaudiamo Mou che fa il gesto delle manette al mondo. Le sue conferenze stampa che fanno genere letterario a se stante: «non sono un pirla»; «prostituzione intellettuale»; «Lo Monaco? Io conosco il monaco del Tibet, il Monaco di Montecarlo, il Bayern Monaco, il Gran Premio di Monaco. Se qualcuno vuole essere conosciuto parlando di me deve pagarmi tanto»; «Rispetto le opinioni di tutti, andrò a vedere su Google chi è Zeman».

Siamo nel mezzo di una dolorosa gentrificazione morale del pallone: il nostro vecchio quartieraccio, abitato da divertentissimi quanto loschi mestieranti della rissa, ci piaceva un sacco. Ma ora sono arrivate le boutique di lusso, i lustrini retorici, i sorrisi e il non detto. Gasperini – antipatico più o meno a tutto il sagrato – resta col ditino puntato mentre i discoli “che fanno caciara” lo mandano un po’ ovunque.

Dentro di noi – ma non si può dire – speriamo che Gasperini diventi Delio Rossi. Il pacioso allenatore con l’espressione da ragioniere del catasto che insolentito per un cambio da Adem Ljajic (Fiorentina-Novara 0-2, 2 maggio 2012) finì per pestarlo al rientro in panchina. Altro che caciara, altro che tenerezza.

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