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Il Liverpool multiculturale di Klopp che ci ha resi tutti umarell

Sotto l’epica del cappellino c’è il “manager totale”: ha costruito il suo gioiello anno per anno. È stato più facile vincere nel mondo che in Inghilterra

Il Liverpool multiculturale di Klopp che ci ha resi tutti umarell

Klopp lo spiegava in una lettera ad un bambino di 10 anni, Daragh, tifoso del Manchester United: “Il mio mestiere è far vincere il Liverpool”. Perché lui – tra parentesi – è uno che risponde alla posta. Era la versione pedagogica di un’altra sentenza:

“Non lavoro per guidare la squadra migliore al mondo, lavoro per poterla battere”.

Ma quella era la fase Jep Gambardella, in cui non voleva solo partecipare alla Premier, voleva avere il potere di farla fallire. Ora guida la squadra migliore del mondo, oggettivamente, lavorando per renderla imbattibile. E questa cosa, questa del lavoro, è rimasta schiacciata dal peso del personaggio. Ma ci torniamo.

Il Liverpool (la povera creatura del rapporto epistolare se ne sarà fatta una ragione) ha vinto il campionato inglese dopo 30 anni e una pandemia per lo mezzo. E lo ha fatto per mano di uno di cui si fa una certa fatica a censurare l’apologia: Klopp è un gigante, per restare sobri.

Ha il cappellino da baseball e la barba incolta, ed è una deformazione stilistica in un mondo di azzimati guru di tattica agonistica che fece pesare ad un giornalista che voleva da lui un commento sulla pandemia di coronavirus: “Queste cose chiedetele a chi ne sa, io faccio solo l’allenatore di pallone, sono uno scemo qualunque con il cappellino e la barba”.

Mentre il mondo anabolizzava gli stereotipi, lui riusciva a berseli in un bicchier d’acqua: sorridente e guascone, immediato, contronarrante. Nel frattempo, dopo il Borussia, andava infilando un mondo intero dentro lo spogliatoio dei Reds:

“Utilizzare tutte le culture, sfruttare i punti di forza di ognuna di esse”.

E lui ne ha 13, diverse, da allenare ogni giorno. In tempi così, una frase del genere vale una campagna elettorale. Ma lui no, era lì che mandava a quel paese il tifoso che gli porgeva il cinque all’ingresso di Anfield, in piena fotta protocollare: non si fa, cazzarola.

Klopp ha portato a termine una devastante appropriazione culturale, e sotto ci ha nascosto un lavoro geniale fatto di economia e tattica, sudore e strategia di marketing. Ha riassunto in un sol uomo ultra-brandizzato il concetto di manager totale, in accezione anglosassone. Ha fatto di noi tanti “umarell” affacciati al suo cantiere per assistere alla costruzione del castello che oggi tutti celebrano.

Lo ha fatto, per di più, mantenendo intatta la fedina morale in un’epoca che ha ucciso il contesto. Klopp è sostanza, e pure cornice.

Il normale Klopp, e il calcio heavy metal. Oggi, dappertutto, è un profluvio di “quotes”, citazioni, aneddoti. Ma se quest’orgia ha un senso è perché il suo Liverpool ha vinto la Premier League con 7 giornate di anticipo (record assoluto), e ad Anfield ha raccolto 16 vittorie su 16. Con 28 match vinti è a -4 dal primato attuale del Manchester City, che ha ancora anche l’asticella di quota 100 punti. Ecco, Klopp ci è arrivato facendo una cosa che nel calcio attuale è quasi perversione: aveva un piano a lungo termine, un progetto meticoloso.

L’ha presa alla larghissima: ha dominato il mondo, per accerchiare casa. Il campionato inglese è arrivato come una naturale conseguenza dei trionfi internazionali: la Champions, il Mondiale. Il suo “gegenpressing”, l’ossessiva sopraffazione dell’avversario costruita sulla corsa, la velocità, gli inserimenti continui. Il Liverpool, spesso, prende letteralmente a “paccheri” chi ha di fronte. Klopp dice che il tiqui-taqua di Guardiola “è un calcio perfetto, ma non è il mio sport”.

S’è costruito la squadra per modelli, improvvisazione zero. Solo 4 giocatori del suo esordio nel 2015 fanno ancora parte della rosa campione d’Inghilterra: Milner, Origi, Lallana e Clyne. Poi ha comprato benissimo, un colpo all’anno tutti gli anni. Vendendo ancora meglio. Nel 2016 prende Sadio Mané dal Southampton per 41.2 milioni di euro. Poi si concentra sulla difesa: dopo un lungo corteggiamento porta ad Anfield, nel gennaio 2018, Virgil van Dijk. Sempre al Southampton vanno 84.65 milioni di euro, il difensore più costoso di sempre. Mancano due pezzi che rendono la completezza di pensiero di Klopp. Nel 2017 dalla Roma arriva Salah, per 42 milioni di euro. L’anno dopo, sempre dalla Roma Alisson, per 62.5 milioni di euro. Attaccante e portiere. Salah prima di Klopp è un gran bel giocatore, velocissimo e un po’ estemporaneo. Con Klopp diventa Salah il fuoriclasse.

Klopp però incassa pure. Vende Coutinho al Barcellona per 145 milioni di euro, e poi Benteke e Sakho per altri 60 milioni. A posteriori è una roba da nobel per l’economia. La squadra è fatta, le casse galleggiano. Lo step successivo è fidelizzare tutto quel potenziale, basta rivoluzioni, è tempo di raccogliere. Compra low cost (van der Berg, Adrian, Minamino). Vince la Champions League, il Mondiale per Club. Ora la Premier League.

Il suo mestiere, puro e semplice, è “far vincere il Liverpool”. Tutto qua. Un genio, altro che “normale”.

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