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Continuiamo a rifiutarci di riconoscerci razzisti. Difendiamo Montanelli e non tocchiamo Eduardo

Come ampiamente prevedibile, in Italia la discussione sarà l’ennesima occasione persa. Un tema che riguarda anche Napoli e un suo maestro

Continuiamo a rifiutarci di riconoscerci razzisti. Difendiamo Montanelli e non tocchiamo Eduardo

Nel mondo scosso dai cannoni tuonanti delle discussioni sulle discriminazioni razziali, il ruolo dell’Italia non è cambiato: è rimasto il paese il cui motto è: “Avremmo potuto cogliere questa buona occasione”.

Nello stivale non si accende alcun animo, non esiste neppure quel divertimento – una volta riservato agli intellettuali – che si prova a picconare i simboli del potere. In Italia, dopo trentamila e passa morti e il viso rivolto alla più grande recessione della storia, la priorità è elargire il bonus vacanze. Rasserenarsi in un paese già catatonico e cianciare in spiaggia dei tecnocrati di Bruxelles.

Le voci dei nostri liberali e dei nostri progressisti sono note: i primi diranno che il movimento “Black lives matter” è strumentale al potere politicamente corretto delle multinazionali; i secondi si organizzeranno per un nuovo murales a Lenin. Il risultato è il solito granello di sabbia della provincia del mondo: giorni e pagine a discutere sulla statua di Indro Montanelli. Questa è l’ultima incarnazione del topolino che la montagna nazionale ha partorito. Ora pensiamo ai lidi: come riapriranno, con o senza plexiglas?

L’occasione persa è parlare di me, di te, di noi. Noi che rifiutiamo di riconoscerci razzisti, nati cresciuti e formati in quell’immenso e ricchissimo paesaggio culturale che è l’Occidente. Un orizzonte di valori enormi e fondamentalmente razzisti di cui non abbiamo alcun sentore, poiché in questo sistema noi siamo immersi dal giorno del nostro primo vagito e il razzismo non viene cancellato con la firma in calce ad un’autocertificazione. Sono gli oppressi, sono coloro che subiscono questa segregazione a dover giudicare ciascuno di noi, che rifiutiamo categoricamente qualunque analisi, ogni benché minimo sospetto, ponendo sempre noi stessi al centro del mondo – il caso più emblematico che siamo riusciti a trovare è dunque quello di Montanelli, un uomo che ha lottato in una guerra coloniale di aggressione, che ha sposato una dodicenne nativa e di cui pure si è riusciti a discutere le”presunte” idee razziste. Il giornalista, suo discepolo, lo ha difeso a spada tratta sulle colonne del più autorevole quotidiano italiano, nel Duemila venti. Nel nostro cervello da viziatissimi e noiosissimi europei non riesce ad infilarsi neppure il minimo fastidio di avere avuto un maestro di professione che convivesse con un sereno sentimento razzista.

Da napoletano mi chiedo “Quando?”. Quando ci diremo finalmente che era razzista il Ferdinando Quagliolo di Non ti pago del grande De Filippo, e che ancora oggi un omosessuale soffre nel vedere la commedia eduardiana Mia famiglia. Quando riconosceremo che trovare queste zone oscure nei nostri grandi modelli è in realtà un nostro preciso dovere di discepoli che allenino il proprio pensiero libero alimentando dubbi su sé stessi. Secoli di oppressione violenta di uomini e donne ridotti in schiavitù, alimentati dal nostro perbenismo, possono ben valere qualche incertezza in noi stessi o un piccolo e semplice: “Scusate, credo di essermi sbagliato, penso di essere anche io razzista”.

Non è possibile che la mia città si prenda ancora ad esempio di integrazione solo perché nell’immaginario comune esiste una nutrita comunità di femminielli che in tanti continuano anche oggi a mostrare quale esempio di civiltà, senza che nessuno tra noi si chieda se invece essa non rifletta e rafforzi quel rapporto di subalternità che costringe i singoli a percorrere una strada già segnata. Siamo così marciti dentro da prendere le gabbie a simbolo di libertà degli altri. I transessuali hanno accesso oggi alle medesime scelte che gli eterosessuali hanno a disposizione, in città o nella nostra nazione? O sono forzati a ricoprire un ruolo che la società pretende che essi ricoprano?

Sul nostro sport e sul nostro calcio c’è solo da stendere un pietoso velo. La verità storica è che quasi nessuno di noi, in questo mondo – a cominciare dai giocatori e gli allenatori e finire ai presidenti, i giornalisti e i tifosi – ha una concreta volontà di porsi delle domande in pubblico. Di aprire con un interrogativo. Come fruitori dello spettacolo, siamo fermi allo sventolio della stampa su A4 della faccia di Koulibaly dagli spalti, allo stesso modo in cui il dibattito nazionale sul ruolo della polizia nel garantire l’ordine è fermo alle righe di Pasolini su Valle Giulia e lo scontro tra poliziotti e i figli di papà piccolo-borghesi. È tutto ridotto all’aneddoto marginale, dalle nostre parti, alla citazione pescata su wikiquote ad uso e consumo di un comportamento ormai modellato in larga parte sulle piattaforme social.

La società in cui viviamo, la nazione, il continente, la cultura, lo sport in cui ci muoviamo, poggiano ancora oggi su assiomi discriminatori. La nostra vita quotidiana – le possibilità che ci vengono offerte, il lavoro che possiamo scegliere, lo spettacolo cui decidiamo di assistere, la vita sentimentale che intraprendiamo – hanno come architravi ideologiche discriminazioni sulla base di colore della pelle, nazionalità, cultura. Ciò che viene richiesto a ciascuno di noi è di riconoscerlo perché, seppure non siamo colpevoli di ciascuna discriminazione avvenuta o legiferata nel passato, ne siamo tuttavia responsabili oggi come individui e cittadini.

Nell’ultima parte di un interessante intervento di una collega di lavoro, afroamericana, sul tema della discriminazione razziale, c’è scritto:

A chi mi chiede: “Cosa posso fare per te?” rispondo: “Ho bisogno che tu impari, che di questo tu ti prenda cura”. Voglio degli alleati che facciano attenzione a quanto sta avvenendo al di fuori della propria comunità e della propria normale prospettiva quotidiana. Voglio degli alleati che sappiano che queste cose accadono oggi a persone come me, senza che sia io a dire loro che cose del genere accadono oggi a persone come me.

Tutto questo val bene una statua. Tutto questo val bene una fede.

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