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Bagnoli non è più lo stabilimento, ma che cosa sarà?

Una serata al Circolo Ilva con Bassolino e i fratelli Bennato per la presentazione di “Bagnoli. L’ultimo casco giallo” il libro di Capasso Pesce

Bagnoli non è più lo stabilimento, ma che cosa sarà?
L'area ex Italsider a Bagnoli

È possibile che un piccolo libro – un tascabile si diceva una volta perché entrava in una tasca, ma oggi la tasca è occupata dal cellulare e il cambio di oggetti ha influito non poco sui nuovi modelli culturali – colpisca nel segno più di altre iniziative più dispendiose per impegno e potenza comunicativa? È certamente possibile e ne abbiamo avuto conferma giovedì pomeriggio alla presentazione di “Bagnoli. L’ultimo casco giallo” scritto a quattro mani da Giovanni Capasso (è lui l’ultimo) e da Giuseppe Pesce.

La miccia dell’interesse l’ha accesa Antonio Bassolino che, come il leone nella foresta, ritrova nel suo territorio la voglia di combattere. Due le parole-chiave della serata: la prima è il piacere di ritrovarsi nell’aristocrazia della classe operaia (la definizione è di Eugenio Bennato che con il fratello Giorgio ha voluto onorare la memoria del padre casco giallo con quaranta anni di anzianità) e “Basta nostalgia” che l’ex sindaco ha posto al centro del suo ragionamento e il pubblico ha mostrato di apprezzare. Soprattutto perché Bassolino è stato abile a completarla collegandola alla realtà dei nostri giorni, come hanno commentato i due presidenti del Circolo Ilva, Guglielmo Santoro e Vittorio Attanasio: «Bagnoli, ha detto, non è più “quella” della fabbrica ma può rinascere perché nel fallimento non ha mandato al macero anche i valori, insieme ai suoi simboli e al suo know-how, la capacità di difenderli».

La verità è che Antonio Bassolino si sente a suo agio a Bagnoli e gli piace da morire indossare metaforicamente il casco giallo sognando, magari, di marciare, con la fascia di sindaco (pardon, è scappata) alla testa degli operai dello “stabilimento” come lo chiama per sottolineare che la fabbrica è un presidio democratico fondamentale, “ma lo stabilimento è una dimensione più su, un mondo”.

E un mondo è stato l’Ilva, quella nata, all’alba del Novecento, da un’idea felice di Francesco Saverio Nitti che a torto venne definita rivoluzionaria mentre era qualcosa, anzi molto, di più in quanto sorretta da un ragionamento che poi si sarebbe rivelato esatto per i risultati che produsse: insediamo a Napoli dove la classe operaia già sta in paradiso con i suoi trentamila addetti un colosso che faccia da ariete e l’effetto-trascinamento darà la scossa che vogliamo a tutto il territorio. E così fu, ma a Napoli, si sa, gli esami non finiscono mai e l’intuizione nittiana si scontrò fatalmente con l’eterna contraddizione che condanna Napoli: niente può essere perfetto e se l’idea è buona la location è sbagliata. O viceversa. E così fu, come ha magistralmente ricordato Ermanno Rea  ne “La dismissione”, un capolavoro pari al lacapriano Ferito a Morte perché mettono in bella scrittura i due modi di essere di Napoli. Opposti ma uniti nel senso che sono le due facce della stessa storia.

Il libro di Giogiò Capasso, uomo di mare anzi di abissi e ingegnere molto apprezzato, ha il merito – grazie agli input e allo stile asciutto di Giuseppe Pesce – di risvegliare gli istinti positivi e racconta una storia reale e drammatica che non ispira soltanto rabbia, ma serve anche ad indicare che il recupero, se davvero si ha la volontà, di tentarlo è possibile. A patto, però, che si abbia la capacità di costruire un “tempo nuovo” che tragga ispirazione e motivazioni da quello vecchio. E qui l’impresa diventa più ardua perché, per una ennesima contraddizione, a Napoli niente è più definitivo del provvisorio. Come dimostrano i barbacane che ancora nascondono le ferite del terremoto degli anni quaranta.  E qui torna il dilemma di Bassolino: tutto è possibile, tutto è bello, ma verso quale futuro andiamo?

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