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Senza Internet non saremmo sopravvissuti

Non è l’unica riflessione che ci impone questa pandemia. Dalla profonda mancanza di disciplina alla mancata sintesi tra politica e tecnologia

Senza Internet non saremmo sopravvissuti

Qualcuno ha scritto – a ragione – che, se in questi giorni di isolamento forzato non riusciamo ad imparare nulla, come singoli e come comunità, allora è inutile incolpare l’ambiente circostante o l’amaro destino: il problema è piuttosto la nostra profonda mancanza di disciplina. Ho provato, dunque, a enumerare qualche punto di riflessione che ho accumulato in questo mese e più di quarantena.

In cima alla considerazioni c’è la controprova del fatto che, in questo momento storico, nessun isolamento può giovare alla vita di una nazione, di una regione, di una provincia: cercare di affermare la libertà di una comunità – o la sua “sovranità’”, come oggi va di moda dire – pretendendo di renderla indipendente dall’unione di stati di cui fa geograficamente e storicamente parte non farà altro, nel lungo periodo, che peggiorarne il complessivo livello di vita.

Il Times ha messo giù un articolo abbastanza onnicomprensivo dei 38 giorni che hanno portato la Gran Bretagna, guidata da un sovranista convinto che eredita i deliranti anni della preparazione alla Brexit, al recente disastro in cui si trova oggi. Non vale neppure la pena attardarsi a considerare la tragicità di un ipotetico scenario in cui l’Italia, colpita al cuore dalla attuale pandemia, si fosse trovata al di fuori della zona Euro. Non serve ricordare che, in ultima istanza, persino il decantato “modello Lombardia” è stato negli anni figlio dell’isolamento politico di quella regione. L’isolamento ha un costo gigantesco, ad ogni livello, sia quando esso costituisca la piattaforma di un programma politico, sia quando esso sia l’architrave di un provvedimento preso nel seno di una emergenza. In questo, si faccia attenzione, Boris Johnson e Vincenzo De Luca potrebbero, alla lunga, abbracciare più tesi in comune di quanto non appaia a prima vista.

Il secondo punto che questi giorni hanno evidenziato è il prezzo gigantesco della competenza e della necessità di averne nei luoghi decisionali. Gli eventi hanno mostrato in modo plastico che a tenere le redini della corsa sono esclusivamente i leader che posseggono i principi cognitivi essenziali, sanno cosa sia una misura, un esperimento, una peer-review, capiscono cosa sia un percentile, una varianza, una deviazione standard e abbiano compreso appieno la responsabilità di produrre e mantenere dati chiari e apertamente comunicabili – perché il principio fondamentale di qualunque analisi è che non esiste modello senza una alta qualità di dati. Questo chiama alla responsabilità di tutti: non è più possibile, nel 2020, non possedere le nozioni basilari della matematica e della fisica teorica e sperimentale su cui si fondano secoli di progresso scientifico e tecnologico, perché tale progresso è oggi così potentemente in marcia da rendere non solo inefficienti ma addirittura perniciosi i pensieri di tutti coloro che non riescono a maneggiarne il vocabolario. Non è un caso che i paesi che meglio stanno rispondendo a questa crisi sono quelli che hanno eletto leader come la Merkel, che in pochi minuti riescono a comunicare, in modo scientificamente corretto, solo e non oltre l’essenziale.

Al terzo posto c’è il cosiddetto elefante nella stanza, per dirla con gli anglosassoni, ossia il concetto di Stato: della sua sicurezza, dei suoi confini e della loro difesa. Questa crisi mette a nudo la vetustà di ciascuna di queste nozioni che ancora oggi ci appaiono reali e necessarie quasi solo per pigrizia morale ma che, per chi scrive, tramonteranno in un futuro prossimo così come hanno fatto altre idee, altrettanto radicate nella storia universale dell’uomo, quali ad esempio la schiavitù. Oggi, una parte sostanziosa e sostanziale del nostro continente vive nonostante i confini, e non grazie ad essi. Per le moltitudini che lavorano in paesi diversi da quelli di origine, e viaggiano attraverso di essi per motivi professionali, mantenendo rapporti personali trasversalmente in più stati, l’ordalia di residenze reali, fiscali, doppie tassazioni, diritti di cittadinanza e di voto sono inesplicabili. Sono fardelli insensati. Anzi, sono una vera e propria concreta truffa ai danni delle vite dei cittadini.

L’idea stessa di Stato e di sicurezza nazionale sono l’implementazione di principi apertamente discriminatori che si ammantano di uno straccio di moralità per rendersi minimamente passabili. Abbiamo chiuso le frontiere e stiamo vedendo morire i raccolti ovunque, limitarsi le scorte di beni essenziali, bloccarsi i cantieri di costruzioni, solo per fare qualche facile esempio. Oggi vediamo provato quanto milioni di cittadini continuano a negare per convenienza, ovvero che il diritto di voto riservato agli aventi diritto di cittadinanza (e non ai lavoratori) è un sopruso, perché la nostra stessa vita di cittadini comunitari esiste solo in quanto una miriade di stranieri comunitari o extracomunitari la rendono possibile, ed il motivo per cui gli stati istituiscono visti e carte di lavoro è esclusivamente quello di limitare il potere decisionale di cui queste persone avrebbero assoluto diritto. La cittadinanza, dunque, è in realtà l’ultima versione della schiavitù, riveduta e corretta per le masse degli anni duemila. Abbiamo usato la difesa della cultura come arma di repressione di massa. Ma questa crisi ci suggerisce che, proprio come un tempo si giustificava la necessità di vendere e acquistare schiavi fornendo interpretazioni etiche e religiose più o meno arzigogolate, oggi si giustifica lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo in nome della sicurezza nazionale.

Il quarto punto è la rete. Anni di tecnologia gettati via nell’inutile fumo di selfie e storie sui social non hanno minimamente intaccato la serietà e la giustezza delle motivazioni per cui sono nati, decenni fa, la commutazione a pacchetto e con essa internet, una delle sue incarnazioni. La rete è stata sottoposta, in questi giorni, a stress test micidiali, ed ha tenuto. L’infrastruttura costruita dall’uomo, fatta di macchine virtuali e risorse “elastiche”, ha permesso di continuare a vivere nonostante una crisi sanitaria di dimensioni planetarie. Oggi possiamo dirlo, con evidente cognizione di causa, che senza la rete non saremmo sopravvissuti. Non lo avrebbero fatto gli ospedali, le strutture sparse per il mondo, le istituzioni, l’istruzione. Gli affetti. Decenni di ricerca e successivi decenni di ingegneria hanno reso quelle che un giorno venivano nebulosamente definite “autostrade informatiche” il nostro necessario substrato umano. È davvero, questo, il secolo di Alan Turing.

Il quinto punto, a corollario del precedente, ci dice che non siamo preparati, come consesso umano, alla velocità evolutiva della tecnologia. La politica, che è rimasta il luogo della nostra agorà, del discorso, del discernimento e dell’approfondimento necessari a costituire le leggi della nostra società, ha tempi caratteristici di diversi ordini di grandezza superiori a quelli della tecnologia. Se è vero che in Grecia hanno fondato la democrazia alcune migliaia di anni fa, è anche vero che lo hanno fatto non tanto perché allora fossero più intelligenti di quanto lo siamo noi oggi, ma perché quel processo, per essere esplorato e affinato, ha richiesto tempi lunghissimi che la storia all’epoca ha potuto concedere, visto che si trovava a doversi relazionare con un processo tecnologico che si rinnovava nei secoli e non nei quinquenni. Se i suoi contemporanei avessero avuto a disposizione il cloud, difficilmente avremmo visto nascere Solone. Questa sintesi tra politica e tecnologia, oggi, non l’abbiamo ancora trovata. Di sicuro, però, possiamo dire che tutti i tentativi di forzare la politica sulla tecnologia – dagli albori del berlusconismo, fino ai deliri della democrazia diretta – non hanno prodotto risultati esaltanti. La politica ha funzionato e funziona ancora quando rispetta i suoi tempi, che sono naturalmente lunghi. La tecnologia crea i database, la politica europea crea il GDPR – i cittadini devono istruirsi ed imparare che la prima crea eccitazione, la seconda regolamentazione, e questi due poteri devono rimanere autonomi e separati in ciascuno di noi, come singoli, così come nella nostra comunità umana, altrimenti si finisce con l’eleggere come presidente degli Stati Uniti uno che rincorrere le idiozie sulle cure per il covid-19 proferite dai network sul televisivi il giorno prima.

La riflessione numero cinque riguarda l’organizzazione del lavoro e l’idea che ne abbiamo. Qualcuno ha scritto, a ragion veduta, che ci troviamo nel più grande esperimento di home working che l’umanità abbia mai conosciuto su scala globale. Da oggi sappiamo, dati alla mano, che una parte consistente delle professioni può svolgersi da casa, se si hanno le infrastrutture necessarie a disposizione, delegando ai singoli e alle organizzazioni familiari la responsabilità di organizzare la propria vita privata e lavorativa. Dove non esistono limitazioni oggettive imposte dalla logistica o dalla produzione, non c’è alcun bisogno che le persone vivano la maggior parte della propria vita quotidiana in un ufficio. Non è necessario affrontare spese di fitto e utenze per luoghi che vengano aperti alle 7 e mezzo del mattino. Non è necessario preparare visti e documenti per rilocarsi da una nazione all’altra. Moltissime persone possono lavorare da casa in maniera assolutamente produttiva e, stando a casa, riuscire a curare la propria salute e quella dei propri cari con maggiore attenzione.

Al di là del solito panico spicciolo, non è un male che uomini e donne re-imparino a fare una spesa, a cucinare per sé e per i propri figli, a parlare più spesso con i loro insegnanti. Una maggiore qualità del cibo porterà a una maggiore attenzione alla propria salute e a un minor numero di casi critici da curare per la sanità pubblica – dunque, in ultima analisi, ad una migliore capacità, da parte del sistema sanitario, di rispondere a crisi come quella che stiamo vivendo. È anche il momento, per ciascuno di noi, di produrre con qualche spietatezza una analisi del proprio lavoro: se per completare in modo proficuo una giornata professionale siamo costretti a inviare lettere, firmare carte, bollare e controbollare, attendere o apporre timbri, allora forse il nostro ruolo ha un certo grado di superfluità. Se è così, e sapete immaginare almeno tre o quattro modi per semplificare il vostro ruolo o persino lasciarlo scomparire, forse è arrivato il tempo di cercare un altro impiego o fare semplicemente altro nella vita, perché un lavoro inutile ha un costo sociale spesso assai significativo.

Al numero sei, a conclusione del cinque, c’è il nostro ordinamento sociale ed il modo in cui decidiamo di muoverci nel mondo. Ci sono, dunque, i trasporti. Se ripensiamo al mondo del lavoro ci accorgiamo che non è del tutto giustificato avere scuole che aprano i battenti alle sette o alle otto del mattino, costringendo maree illimitate di automobili o trasporti pubblici ad ingolfarsi su strade, cieli e rotaie. In queste ore, per la prima volta nella storia dell’uomo, il petrolio ha raggiunto un prezzo negativo: ti pagano per portare via i barili. È l’epitaffio finale su un’era che, più che in fase di tramonto, si è completamente conclusa. I motori a sedici valvole, quattro otto o dodici cilindri, le iniezioni elettroniche, le cinque sei o otto marce sono tutti lasciti del passato, facciamocene una ragione. Così come le librerie – checché decida il governo italiano, che le riapre assieme alle cartolerie in un disperato eppure puerile provvedimento – anche il petrolio ed il sistema di trasporti privati basati su di esso sono al capolinea. L’auto del domani non è solo elettrica, è piuttosto una piattaforma software aggiornabile da remoto, che riceve bug fix come le nostre app sui cellulari, ed ha nella guida autonoma e nell’intelligenza artificiale il suo mercato del futuro. Il trasporto pubblico avrà più a che fare con la condivisione del privato. L’uomo che più ci ha scommesso, Elon Musk, ha prodotto prima di altri respiratori adattando parti hardware e software destinati alle auto, dimostrando come in questa nuova prospettiva la programmabilità sia alla base della produzione e come i mezzi di trasporto del domani richiederanno sempre più ingegneri del software e sempre meno ingegneri meccanici.(Elon Musk è lo stesso che, nel prossimo 27 maggio, farà ripartire le missioni spaziali della NASA). In questi giorni di quarantena, un po’ tutti noi abbiamo osservato i cieli limpidi di Roma, Napoli, Berlino, Londra, Parigi. Non è più solo un auspicio. Ora è una necessità impellente mantenerli tali il più possibile, soprattutto per la nostra salute.

In definitiva, dalla più forte crisi planetaria degli ultimi decenni esce rafforzato il punto di vista del celebre premio Nobel per la Fisica, Richard Feynman: “Non ho paura di non sapere”. Un concetto che è quasi una estensione dell’ancor più celebre adagio di Socrate. Il mondo è sempre stato e sarà sempre più di chi questa paura non solo sa gestirla ma persino renderla ragione di curiosità per il futuro. “È più interessante vivere senza sapere – diceva il fisico statunitense – piuttosto che avere risposte che potrebbero essere sbagliate”. Oggi queste parole viaggiano non solo sui suoli nudi e vuoti di Città del Vaticano, sulla Mecca desolata, nelle sinagoghe prive di essere umano. Esse sono il concreto progetto per il futuro, non una semplice speranza. Possiamo lavorare perché questi siano i giorni più interessanti della nostra breve (e magari intensa) permanenza sul pianeta. Senza aver paura di non sapere. Ma cercando di usare tutto il nostro tempo a disposizione per conoscere quel poco – o tanto – che, come umanità, sappiamo.

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