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Il “vi abbiamo sempre invidiato” della Bild vale una vita intera

Qualcuno si è risentito ma è da turisti della vita. Mezza Europa (e anche di più) immagina l’Italia come il paese dei Mastroianni e siamo noi, unici e soli a vergognarcene

Il “vi abbiamo sempre invidiato” della Bild vale una vita intera

Quello dell’altro giorno – con la fresca lettura mattutina della Bild che titola “Siamo con voi!” e dedica una dichiarazione d’amore all’Italia sulla propria prima pagina – era stata una inattesa dolce sorpresa durante la mia quarta settimana di quarantena berlinese. Si incontra, infatti, un po’ di pudore persino nel riconoscerlo a sé stessi ma è in fondo tacitamente chiaro a ciascuno che, in centinaia di milioni, stiamo imparando in questi giorni a morire. Un compito che di solito richiede una vita intera, o una guerra che non abbiamo mai conosciuto e forse mai conosceremo. E, come uno tra i più immortali artisti britannici (dunque europei) soleva far dire al diavolo, nel rock’n’roll che ne cantava la storia – proprio il diavolo, vero ultimo e strenuo difensore della vita degli uomini, specie nei giorni in cui le piazze vaticane, le acque miracolose di Lourdes e la Mecca sono rimaste desolatamente chiuse e deserte – “ciò che vi sconcerta è la natura del mio gioco”. Ci sconcerta quanto tutto, in questo gioco, sia inatteso, per noi che credevamo di ingabbiare la storia in un modulo.

Inattesa è stata, dunque, anche l’apertura della Bild, giornale diffusissimo in Germania e largamente populista. Dal cuore della capitale tedesca, in cui anche io sono confinato mentre l’Europa intera si blinda in una apnea necessaria eppure paurosamente nefasta, leggo ciò che raramente ho sentito dire ad un tedesco. Ciò che gli sentiresti pronunciare, forse e per l’appunto, in punto di morte. “Vi abbiamo sempre invidiato”. Mentre mi apprestavo a iniziare la mia consueta giornata di telelavoro, ho fatto precipitare in me un po’ di calda commozione ed ho ascoltato un pezzetto dell’ultimo movimento della Nona di Beethoven, l’inno del nostro continente che è anche l’inno alla Gioia, scintilla divina: “Tutti gli uomini diventano fratelli / Dove freme la tua ala soave”. Questo è il nostro inno, fratelli europei. Così come le bare degli amici lombardi che sfilano ci sembrano insensate e ci ricordano che ci siamo dimenticati di dover morire, allo stesso modo questi minuti condotti dalla bacchetta di Karajan ci suggeriscono che abbiamo dimenticato di essere parte di un continente enorme e straordinario, che ha tra i suoi privilegi quello di poter adoperare per inno un capolavoro.

Ora, Karajan fu uomo di sfrenata bellezza, con il carico di lusso, voluttuosità e rischio che solo la vera bellezza comporta. Fu lo stesso che alla domanda su quale fosse a suo avviso la più meravigliosa tra le sinfonie – e lui tutto sommato se ne intendeva -, rispose: “Quella di un dodici cilindri Ferrari”. Con questo spirito e queste parole che mi frullavano nella mente ho quindi letto il pezzo di Paolo Valentino sul Corriere, in cui si è accusata la Bild di aver messo su una pagina ipocrita di falso sostegno all’Italia.

“l solito elenco di luoghi comuni: il tiramisù, Rimini, Capri, la Toscana, Umberto Tozzi e, per quelli più raffinati, Paolo Conte. La voglia di emulazione, inseguendo la «vostra rilassatezza, bellezza, passione». La bravura nel cucinare, la pasta, il Campari, la dolce vita, manca solo il mandolino. «Per questo vi abbiamo sempre invidiato». Come se in Italia nessuno lavorasse. Mai.”

La controffensiva sdegnata del Corriere non mi è apparsa assurda, anzi mi ha ricordato un me stesso più giovane, di una decina d’anni e poco più. Anche a me, trentenne e pronto a partire e andare all’estero per poi rimanerci, dava enorme fastidio che gli altri mi immaginassero scansafatiche, inaffidabile, caotico, insomma napoletano e italiano, provando una sdegnata avversione per tutto il bagaglio storico di cui anche io sembravo naturale portatore e che mi costringeva a trascinare un fardello di cui non mi sentivo affatto responsabile. L’inizio del mio viaggio era anzitutto una lotta contro l’idea che il mondo dovesse aspettarsi qualcosa da me, in quanto napoletano, e che in questo odioso cliché io dovessi saper fare solo la parmigiana di melanzane ma certamente conoscere la teoria del calcolo peggio degli olandesi, dei tedeschi, degli americani.

Poi, però, sono passati dieci anni e più. Sono saltato in cinque nazioni diverse di questo continente che posso onestamente dire di vivere e amare con la forza di tutte le mie scommesse. Adoro i treni che solcano queste terre da capitale a capitale senza un controllo di documenti, il traffico disomogeneo delle periferie di ogni città, i luoghi dove gli slavi si confondono con gli ungheresi e i tedeschi, il vizio colto parigino, la concretezza astrusa dei portoghesi, il casino degli irlandesi. Adoro passare tra Praga e Berlino lambendo ogni volta l’ex campo di concentramento di Theresienstadt dove un tempo andavano a regime le camere a gas e oggi posso soppesare la soave leggerezza della nostra libertà gratuita di rompere i confini. E anche di morire, se capita.

Ho anche imparato, negli ultimi anni e ancor di più in questi giorni, che – dopo aver a lungo perfezionato il mio lavoro nel software – non avevo mai imparato a fare una parmigiana di melanzane e forse per questo motivo ne ho sempre sottovalutato la complessità. Se si debba usare o meno la farina prima di friggerle; se mettere o meno la mozzarella sull’ultimo strato. Sono stati i britannici, i cechi, gli svedesi ma soprattutto i tedeschi a lenire le vampate giovanili che mi hanno ideologicamente proibito di mettere le mani ai fornelli. Ci sono decine di milioni di persone, nel nostro continente, che immaginano l’Italia come il paese dei Mastroianni e siamo noi, unici e soli, italiani, a vergognarcene. Come è possibile essere arrivati a vergognarci della Dolce Vita? Credo sia stata soprattutto la nostra pigrizia e lo scarso impegno che abbiamo profuso nel capire e nel chiedere di raccontarci qualcosa del nostro ieri. Per impreparazione – quella che, purtroppo, stiamo pagando tutti in questi giorni, notando ora e definitivamente cosa significhi accontentarsi di avere qualcosa che mediamente funzioni, gestito da qualcuno che mediamente sappia. Abbiamo idea noi, trentenni, quarantenni, cinquantenni, quanto costi un bagno nella Fontana di Trevi con Anita Ekberg? Quanta dedizione e quanto cesello ci sia dietro un Campari? Quanto studio dietro un bucatino di Gragnano trafilato in bronzo – lo sai solo se hai provato tutte le marche di pasta possibili con improbabili nomi italiani che ti si maciullano nella caldaia dopo tre minuti di cottura.

Siamo tornati, costanti, sul tema dell’impiego, con il terrore di sentirci definire scansafatiche. Nei decenni di lotte sui giusti diritti sul lavoro le fazioni si sono invecchiate e i tempi in cui tutto era in discussione, in cui il destino sembrava segnato – quando partivano i treni piombati per i campi di sterminio – si sono inesorabilmente allontanati, lasciandoci fermi al ruolo nobilitante del lavoro per l’umanità, mentre l’unico compito dell’uomo è imparare a morire. Il lavoro, caro amico del Corriere, è solo una possibile strada da percorrere, ma la meta è sempre altrove e vive di noia, di amore, di carne, di morte e di estati. Per Karajan tutta la storia dei contrappunti bachiani non vale i diecimila giri del V12 di Maranello, perché quel rombo proviene ora e adesso dalla pendenza del suo piede, sui sedili di pelle della sua 250 GT Lusso, mentre il vento dei duecentoquaranta orari si insinua tra i capelli e le cosce della sua splendida compagna Eliette.

Scagliarsi contro i luoghi comuni non è neppure più vintage. È da turisti della vita e dell’Europa – un giorno si scriverà dei danni che ha fatto la Lonely Planet negli anni scorsi a riguardo. A conti fatti, sul lavoro così come nella vita privata, ho notato che è vero che i russi sono generalmente persone di sentimenti enormi e aggressività zarista, gli slovacchi sono spesso affetti dalla irriducibile pigrizia hamsikiana, e gli italiani sono tipicamente attendisti come Quinto Fabio Massimo detto “Cunctator”, il “Temporeggiatore” – il generale romano del quale Cicerone disse: “Snervò la guerra punica” – un signore che vinse i Cartaginesi col contropiede, fin quando, come si legge sulla Treccani, non arrivarono i guardiolisti dell’epoca che:

“abbandonarono la strategia del temporeggiamento e il risultato fu la sconfitta di Canne. Da allora in poi la strategia di Fabio fu adottata generalmente da tutti i comandanti romani che fronteggiarono Annibale. Essi tutti cioè si proposero di logorare il nemico e di non dargli battaglia se non in condizioni estremamente vantaggiose”.

L’Italia di Bearzot dell’82 non fece altro che vincere un mondiale battendo Maradona, Passarella, Socrates, Falcao, Stielike e Breitner usando l’arma scolpita nel nostro codice genetico, quella che cresce tra i comuni, le montagne, i porti, i centri e le periferie della nostra penisola: aspettare il momento giusto. Roba del genere i tedeschi non la dimenticano facilmente. Per loro rimane un affascinante enigma come la nazione dello spritz e del caffè, con l’acqua minerale gratis a corredo, possa aver vinto con Oriali e Altobelli. Questo mistero, mentre lavori e ringrazi di poter lavorare ancora, devi scoprirlo ed impararlo.

In questi giorni, dunque, vi guardo da lontano, fratelli italiani. Non è dato sapere quando ne usciremo e se lo faremo da vivi, questa è l’unico dato reale. Ciascuno farà la sua parte. Mentre cerco di fare la mia, e vedo sfilare in tutto il mondo carrelli stracolmi di carta igienica, ho imparato a cucinare un’ottima parmigiana di melanzane. In tanti, da lontano, sognano la fine di un incubo con un aperitivo tra le mani ed il nostro mare alle spalle. “Imparavo finalmente, nel cuore dell’inverno, che c’era in me un’invincibile estate.” Lo scrisse un altro grande europeo e resta, oggi, il senso e la forza dell’Europa. Era nato in Algeria. Ma questa è ancora un’altra storia.

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