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Il MIT: “Vivremo reclusi due mesi su tre, alcune cose non torneranno mai più come prima”

Fino al vaccino (per almeno un anno e mezzo) tutti gli scenari prevedono lockdown a fasi alterne: e le conseguenze le pagheranno come al solito i più poveri e fragili

Il MIT: “Vivremo reclusi due mesi su tre, alcune cose non torneranno mai più come prima”

Magari andrà tutto bene: troveremo il vaccino per il Covid-19, e la vita tornerà quella di prima. Ma non prima di un paio di anni, dice la comunità scientifica internazionale. Nel frattempo? Dovremo vivere in stato di pandemia, “cambiare radicalmente quasi tutto ciò che facciamo: come lavoriamo, come facciamo esercizio fisico, come socializziamo, come facciamo acquisti, come gestiamo la nostra salute, come educhiamo i nostri figli, come di prendiamo cura dei membri della nostra famiglia”.

Il “come”, sta tutto lì. Ed è un “come” pesante, profondo, molto più di quello che siamo pronti ad accettare. Lo spiega un articolo del MIT di Boston, che ha provato a ipotizzare vari scenari di vita per il prossimo futuro. Che puntano tutti verso la stessa realtà: “le cose non torneranno alla normalità dopo alcune settimane e neanche pochi mesi. Alcune cose non lo faranno mai”.

Abbiamo già fatto pace col concetto di “curva che si appiattisce”, di “plateau” di “picco”, quindi abbiamo accettato lo stato di quarantena per evitare che la diffusione del virus esplodesse in un breve lasso di tempo saturando gli ospedali e provocando molti morti. E’ quello che è accaduto in Lombardia. Ma il MIT è chiaro: “Non finirà qui. Finché qualcuno nel mondo ha il virus, senza controlli rigorosi le epidemie possono e continueranno a ripetersi”.

In pratica sia il MIT che l’Imperial College di Londra prevedono un futuro a lockdown alterni: un continuo on/off in funzione dell’affollamento delle terapie intensive. Apri: la gente esce, la vita riprende, aumentano i malati, si chiude. Diminuiscono gli accessi in ospedale, il sistema respira, e si riapre. Sempre così, ad oltranza, finché non troveranno un vaccino.

Il “distanziamento sociale” diventerà una regola fissa, però. I ricercatori lo definiscono così: “tutte le famiglie riducono del 75% i contatti al di fuori di casa, scuola o lavoro”. Non significa che puoi uscire con gli amici una volta alla settimana anziché quattro volte. Significa che tutti fanno tutto il possibile per ridurre al minimo i contatti sociali e, nel complesso, il numero di contatti diminuisce del 75%”.

Secondo questo modello, i ricercatori concludono che il distanziamento sociale e la chiusura delle scuole finiranno per essere in vigore per circa i due terzi del tempo: due mesi chiusi, un mese aperti.

Diciotto mesi sono lunghissimi, con questi presupposti. E allora lo studio prova a capire se, per esempio, aumentare la capacità delle terapie intensive in modo da riuscire a trattare più persone contemporaneamente, possa migliorare la soluzione. E la risposta è no: “Senza il distanziamento sociale dell’intera popolazione, la migliore strategia di mitigazione – che significa isolamento o quarantena dei malati, degli anziani e dei positivi, oltre alla chiusura delle scuole – porterebbe comunque a un’ondata di persone gravemente malate otto volte superiore a quando il sistema statunitense o britannico possano attualmente fronteggiare. E se anche riuscissimo a convertire la produzione industriale per mettere sul mercato più letti e ventilatori, avremmo comunque bisogno di molti più infermieri e medici.

E se chiudessimo tutto per cinque mesi? No, nemmeno: una volta che le misure sono state revocate, la pandemia si ripresenta di nuovo, solo che questa volta è inverno, il momento peggiore per i sistemi sanitari già stressati (c’è l’influenza stagionale, per esempio).

E ancora: se decidessimo di essere brutali e impostare un numero di soglia di ammissioni in terapia intensiva innescando un distanziamento sociale molto più alto, accettando che molti più pazienti moriranno? Anche così farebbe poca differenza. “Per la proiezione dell’Imperial College dovremmo chiudere la metà del tempo, invece che per due mesi su tre”, scrive il MIT.

Insomma: “è l’inizio di un modo di vivere completamente diverso”. Vivremo per un periodo di tempo “in stato di pandemia”. Che significa un un mondo in cui l’economia di tutte le aziende che si basano su “assembramenti” andrà a rotoli: “ristoranti, caffè, bar, discoteche, palestre, hotel, teatri, cinema, gallerie d’arte, centri commerciali, fiere artigianali, musei, musicisti e altro artisti, strutture sportive (e squadre sportive), strutture per conferenze (e conferenzieri), compagnie di crociera, compagnie aeree, trasporti pubblici, scuole private, asili nido”. Per non parlare, aggiunge lo studio, “dello stress esercitato dai e sui genitori per l’istruzione a casa dei figli, delle persone che cercano di prendersi cura dei parenti anziani senza esporli al virus, delle persone intrappolate in relazioni violente e di chiunque non abbia un cuscino finanziario per far fronte alle oscillazioni del reddito”.

Questo stile di vita in reclusione, dice lo stesso studio, “non è sostenibile per periodi così lunghi”. E si chiede “come possiamo vivere in questo nuovo mondo? Parte della risposta si basa su sistemi sanitari migliori, con unità di risposta alla pandemia che possono spostarsi rapidamente per identificare e contenere i focolai prima che scoppino, e su una capacità di accelerare rapidamente la produzione di attrezzature mediche, kit di test e farmaci. Troppo tardi per fermare il Covid-19, ma di certo serviranno per le future pandemie”.

“A breve termine, probabilmente troveremo compromessi imbarazzanti che ci consentono di mantenere una parvenza di vita sociale. Forse i cinema occuperanno metà dei loro posti, le riunioni si terranno in sale più grandi con sedie distanziate e le palestre richiederanno di prenotare gli allenamenti in anticipo in modo che non si affollino”.

Ma soprattutto lo studio prevede che “ripristineremo la capacità di socializzare in sicurezza sviluppando modi più sofisticati per identificare chi è a rischio di malattia e chi non lo è e discriminando, legalmente, coloro che lo sono”.

“Si può immaginare un mondo in cui, per salire su un volo, forse dovrai essere registrato a un servizio che tiene traccia dei tuoi movimenti tramite il telefono. La compagnia aerea non sarebbe in grado di vedere dove sei andato, ma riceverebbe un avviso se ti fossi avvicinato a persone infette conosciute o a focolai. E così all’ingresso di grandi spazi, edifici governativi o per il trasporto pubblico. Ci sarebbero scanner di temperatura ovunque e a lavoro potrebbero richiederci di monitorare altri segni vitali. I locali notturni magari potrebbero chiedere la prova dell’immunità: una carta d’identità o una sorta di verifica digitale tramite il telefono”.

Insomma, per il MIT “ci adatteremo e accetteremo le misure, così come ci siamo adattati ai controlli di sicurezza aeroportuali sempre più rigorosi a seguito di attacchi terroristici. La sorveglianza intrusiva sarà considerata un piccolo prezzo da pagare per la libertà di stare con altre persone. Tuttavia, il costo reale sarà sostenuto dai più poveri e dai più deboli. Le persone che hanno meno accesso alle cure sanitarie o che vivono in aree più soggette a malattie, ora saranno anche più frequentemente escluse da luoghi e opportunità aperti a tutti gli altri. Gli immigrati, i rifugiati, gli irregolari e gli ex detenuti dovranno affrontare un altro ostacolo per far parte della società”.

“Ci saranno alcuni che perderanno più di altri, e ci saranno quelli che hanno già perso troppo. L’unica cosa che possiamo è sperare che la profondità di questa crisi finirà per forzare alcuni Paesi – gli Stati Uniti, in particolare – a correggere le disuguaglianze sociali che rendono così largamente vulnerabili ampie fasce della loro popolazione”.

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