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Barcellona ha un modello identitario politico-sociale, Napoli no

I catalani hanno riunito sotto la bandiera del Barça un sentimento di rivincita non solo sportivo, a Napoli nulla è mai cambiato, è un sentimento individuale più che collettivo

Barcellona ha un modello identitario politico-sociale, Napoli no

Questa sera allo stadio San Paolo il Napoli sfiderà per la prima volta in una competizione ufficiale il F.C. Barcellona. Una partita che va oltre l’ambito sportivo non perché esista una rivalità tra le due squadre o le due città, ma per il sentimento identitario che vincola profondamente i tifosi partenopei e blaugrana ai rispettivi territori seppur in modo completamente differente. L’antropologo francese Christian Bromberger afferma che il sostegno e l’identificazione con la squadra della propria città o regione è più forte in città decadute o che hanno perso importanza (politica ed economica) come Marsiglia, Napoli, Liverpool o in regioni e comunità che rivendicano la propria autonomia come nel caso del F.C. Barcellona che è diventato simbolo della Catalogna e un mezzo attraverso il quale si esprime e si promuove l’identità catalana.

Il legame tra il calcio e la politica è molto stretto. Spesso si utilizza lo sport e soprattutto il calcio a fini politici, come forma per canalizzare i sentimenti nazionalisti o per mantenere la popolazione in uno stato di passività politica. In Spagna il calcio durante il franchismo assumeva due valori contrapposti: da un lato si utilizzava come strumento di propaganda del regime franchista, ma dall’altro, si configurava come un momento di lotta contro la dittatura. Il F.C. Barcellona nacque nel 1899 fondato dallo svizzero Hans Gamper ed era formato quasi interamente da stranieri che risiedevano a Barcellona. Sin dalla sua origine il club ha manifestato il suo attaccamento al territorio catalano e ha mostrato le sue simpatie politiche. Durante la dittatura di Miguel Primo de Rivera (1923-1929), venne soppressa la bandiera catalana e venne vietato il catalano come lingua ufficiale. Di conseguenza molte persone consideravano il barcellonismo come un simbolo di resistenza del nazionalismo catalano contro il potere del regime. La bandiera e i simboli del club sostituirono la senyera (la bandiera della Catalogna) messa al bando e apparirono nelle manifestazioni politiche dell’epoca. La squadra e il club si identificavano sempre di più con l’autonomia catalana. Il rapporto con la politica si fece ancora più evidente nel 1935 quando fu eletto presidente del club blaugrana Josep Sunyol membro del partito Esquerra Repubblicana. Pochi mesi dopo, nel 1936 durante la Guerra Civile, Sunyol fu catturato e fucilato dalle truppe franchiste.

Durante il franchismo il Barça divenne l’espressione di un complesso di sentimenti e opposizioni politiche e sociali che ritenevano la dittatura franchista come il nemico comune. Con Franco il Real Madrid, suo malgrado, si era trasformato nel simbolo della hispanidad e del centralismo politico mentre il Barcellona, all’opposto, era diventato simbolo del catalanismo e di tutte le lotte contro la dittatura. Il dittatore cercava di eliminare qualsiasi sentimento nazionalista, ma considerava il calcio e il Barcellona un mezzo attraverso il quale dare sfogo alle rivendicazioni catalane e, allo stesso tempo, poterle controllare. Senza partiti politici, né lingua, né governo regionale i catalani riversavano tutto il loro orgoglio, frustrazioni, aspirazioni e identità culturale nel calcio. Lo stadio del Barcellona divenne l’unico luogo dove poter gridare in catalano e cantare le canzoni tradizionali.

Il motto del F.C.Barcelona è “més que un club” (più di un club), una frase che sintetizza i valori che rappresenta la squadra catalana. L’ex presidente Joan Laporta in una intervista ha dichiarato che “il Barça promuove valori universali come il senso civico e la sportività, ma è fortemente vincolato e radicato nella società catalana. Per un catalano del Barça il catalanismo del club è molto importante”. Lo scrittore Manuel Vazquez Montalbán (2005) afferma che in Spagna ci sono tre società che si possono considerare più di un club e sono l’Athletic Bilbao, il Real Madrid e il Barcellona perché hanno una carica di rappresentatività epica di una comunità determinata. Secondo lo scrittore, la Catalogna è una nazione senza stato e senza esercito e il calcio riempie questo vuoto di rappresentatività.

E il Napoli? Spesso sentiamo parlare di identità attraverso il calcio, di napoletanità associata al tifo per la squadra partenopea, di rivincita sociale contro i poteri forti del nord Italia. Essere tifosi di una squadra può servire ad esprimere, difendere e promuovere una identità. A Napoli la storia della società di calcio rispecchia ed è metafora della città ed è caratterizzata da momenti di crisi e da altri di grande esaltazione. Senza voler ripercorrere tutta la storia del club fondato nel 1926 da Giorgio Ascarelli, mi sembra interessante sottolineare brevemente alcuni aspetti. Dal 1936 al 1967 il presidente della società è stato l’armatore e politico Achille Lauro, sindaco della città. Lauro utilizzava il calcio e la passione dei tifosi per motivi personali. Il presidente comprava giocatori importanti a prezzi altissimi durante il periodo elettorale. Associava la sorte della città a quella della squadra e si serviva di questa relazione per interessi politici. Durante le elezioni del 1952 il motto della sua campagna elettorale era “Con Lauro per una grande Napoli, per un grande Napoli”. Lauro giocava con il vittimismo, utilizzava i problemi economici e sociali della città per alimentare la rivalità calcistica e associarla a rivendicazioni politiche fini a se stesse; i suoi discorsi erano molto duri contro lo stato nazionale e contro il settentrione del paese, riferendosi a fatti reali senza però cercare soluzioni o proporre alternative concrete, ma semplicemente per accrescere il potere e l’influenza personali. In questo modo le partite contro le squadre del nord, soprattutto quella contro la Juventus, si caricavano di un valore aggiunto che alimentava la rivalità e la speranza di una rivincita sociale che andava ben al di là della storia sportiva e trovava nel calcio un luogo, un’arena simbolica, nella quale prorompere. Per i napoletani, una vittoria sulla Juventus si considera tutt’oggi una specie di rivincita di un Sud vittima nei confronti di un Nord altezzoso e vessatore. In un contesto generale, in cui il Napoli, la città, i suoi abitanti e la sua cultura sono disprezzate e insultate continuamente dentro e al di fuori degli stadi, i napoletani si afferrano ancora di più alla propria identità.

Come abbiamo visto brevemente, il modello identitario napoletano e quello barcellonese sono profondamente diversi e, in parte, rispecchiano la storia delle due città. I catalani sono riusciti a riunire sotto la bandiera del Barcellona un sentimento di rivincita non solo sportivo, ma soprattutto sociale e politico del proprio territorio che si è trasformato in azione politica e ha raggiunto eccellenti risultati non solo in ambito sportivo. Barcellona è una città ricca, efficiente, con uno sguardo rivolto al futuro, ma fortemente ancorata alle proprie radici e identità. I barcellonesi si prendono cura, amano e difendono la propria città e ne sono orgogliosi. Al contrario, il sentimento identitario napoletano sembra essere più individuale che collettivo. I napoletani non sono riusciti a unirsi e ad arrivare a un cambiamento nemmeno durante l’epoca delle vittorie della squadra di Maradona. Non c’è mai stata una vera unità di intenti e una volontà socio politica che abbia voluto usare il calcio per cambiare il destino della città e dei suoi abitanti. I catalani ci sono riusciti anche grazie al F.C. Barcellona.
Questa sera però conterà solo l’aspetto sportivo.

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