Barbano: “Il metro degli arbitri in Italia non è uguale per tutte le squadre”

Una situazione che "va oltre la fallibilità umana e l’errore del singolo. È evidente che il Var non è stato ancora assimilato"

hanno liberato Orsato

 

“In Italia il metro di arbitraggio non è uguale per tutte le situazioni e per tutte le squadre”.

È un fenomeno che esiste, scrive Alessandro Barbano sul Corriere dello Sport. E “va oltre la fallibilità umana e l’errore del singolo”.

Se Pairetto fischia tutto e Orsato invece fischia poco, tanto per fare un esempio, vuol dire che la valutazione della fallosità non è uguale.

“Ciò vuol dire che la decisione arbitrale non è più prevedibile, e quando una sanzione non è prevedibile viene percepita come arbitraria. Certo, il regolamento ci mette del suo: la riforma del fallo di mano è quanto di più controverso il calcio potesse produrre. Ma ad aggiungere confusione è la mancanza di un modello di interpretazione condiviso. Che si ottiene con una guida autorevole e una formazione costante”.

Una volta, ricorda Barbano, ogni settimana gli arbitri venivano convocati a Coverciano per analizzare i casi della domenica precedente. C’era anche uno psicologo, per gestire l’ansia che accomuna la categoria e persino un maestro come Roberto Clagluna che aiutava i direttori di gara ad analizzare le partite dal punto di vista dei giocatori.

Oggi è cambiato il metodo.

“Il pensiero forte, che rivendicava all’arbitro il primato dell’interpretazione autorevole e corretta, si è trasformato nel pensiero debole che giustifica, a posteriori, il comportamento in campo, piegando la casistica delle immagini alle convenienze di una categoria permanentemente sotto accusa. È accaduto, per esempio, nell’ultimo incontro stagionale tra arbitri, allenatori, capitani e giornalisti, in cui il designatore Rizzoli ha motivato alcune decisioni controverse con i disegni dell’Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci”.

Ma quando il pensiero si fa debole, scrive Barbano, diventa tutto soggettivo e la tecnologia non fa che moltiplicare il soggettivismo.

Il Var non è stato assimilato dai direttori di gara

“È evidente che il Var non è stato ancora assimilato. La sua accettazione non è incondizionata, ma parziale e, soprattutto, subordinata alla difesa di un’antica sacralità del direttore di gara, sempre più in discussione. Ma disporre di una tecnologia e usarla a intermittenza vuol dire farsi male”.

Poi c’è anche la sudditanza.

“Che non vuol dire essere al soldo di qualcuno. Vuol dire però non percepirsi liberi e indipendenti quando, al primo fallo fischiato, un nugolo di giocatori del calibro di Ronaldo, Chiellini, Bonucci, per fare solo degli esempi, ti si parano davanti in cerchio, mostrando tutti interi il nome e l’esperienza di cui sono portatori. Quella che in Italia si racconta da anni come la dittatura della Juve e delle altre squadre che contano a danno della piccole è una condizione psicologica, che si può fronteggiare in un solo modo: sostenendo e rafforzando la cultura, la competenza, l’autorevolezza dell’arbitro. Per questo sbagliano le società che attaccano a testa bassa, anche quando hanno subìto un torto. Per cambiare davvero ci vogliono alleanze giuste. E sguardo lungo”.

Correlate