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“Figli” non è un film, racconta la vita degli spettatori in sala

Il film scritto da Mattia Torre funziona come un reality: in sala il pubblico fa le stesse cose che accadono nel film, quasi contemporaneamente

“Figli” non è un film, racconta la vita degli spettatori in sala

A 20 minuti dall’inizio di “Figli” la sala ha un’età media che forse il titolo più adatto sarebbe Nipoti. Ma io sono un giovane vecchio, c’ho la stessa ansia delle sette signore che si sono catapultate in fila 3 all’apertura dei cancelli, come facevamo noi da giovani ai concerti. La quota millennials arriverà poi, ai trailer, e nella spiegazione che mi do (le babysitter costano, stai a casa finché puoi per rosicchiare spicchi di ore da non pagare) c’è già il senso dell’evento a cui sto inconsapevolmente per partecipare.

Figli non è un film, è un reality. È un’installazione artistica diffusa, è un esperimento sociale. È una cosa girata in 2D che si guarda in tre o quattro dimensioni almeno: c’è il copione recitato da Valerio Mastandrea e Paola Cortellesi, il video, il suono; ma poi c’è il pubblico che è in realtà soggetto del film, attori in campo, si fa raccontare, ad un certo punto comincia a raccontarsi da solo.

Figli sfonda la quarta parete di Diderot, il muro che divide l’opera riprodotta da chi ne usufruisce. Anzi, di più: è un documentario al presente, in tempo reale. È come se stesse raccontando i tic di quelli che in quel momento hanno pagato il biglietto per guardarsi allo specchio autoderidendosi.

Ad un certo punto i due protagonisti, conquistata una serata tutta per loro, con i bimbi finalmente a casa con la babysitter, sono al ristorante, e si confessano che non ce la fanno: “Mi mancano da morire”. Non riescono a star lontani da quelle creature mefistofeliche che fino ad un minuto prima li tenevano costretti al 41 bis della genitorialità responsabile. “E che facciamo?”, si chiedono. “Guardiamo le foto!”. E cominciano a sfogliare l’album sullo smartphone. Finisce il primo tempo, luci in sala. Con un solo simultaneo gesto metà dei presenti sfodera l’iPhone, ed è tutta una sfilata luminosa di bimbi piccoli lasciati a casa. Una specie di convention di “scappati di casa”. Un incrocio di emotività rappresentata, che esplode fragoroso almeno una ventina di volte in due ore.

Ci sono un paio di padri che se ne fottono, ovviamente, che fanno valere altre priorità: “Quanto stanno Fiorentina e Genoa?”, tranne poi sorridere accondiscendenti alla moglie in sollucchero che ammira sognante le foto della prima pappa. E ci sono invece i nonni, quelli che vanno al cinema alla faccia dei figli incastrati in casa dai nipoti. Beh, alcuni di quelli ci mettono i 5 minuti di intervallo solo per sbloccarlo, il telefonino. È un altro campionato, quello.

Diffidate dalle recensioni, Figli non è una normale commedia italiana, di quelle con lo stesso cast, la stessa idea stiracchiata, la stessa recitazione mezzo urlata mezzo inudibile. Figli è metanarrazione satirica: ci prende meravigliosamente per il culo, a tutti, mentre ci prendiamo per il culo da soli, in contemporanea. Figli non esiste senza il suo pubblico, ma poiché è anche un’operazione di marketing raffinatissima, ha un pubblico vastissimo. Una community vera e propria che ci si rappresenta in maniera anche un po’ inquietante, e che è visceralmente protagonista di quel che vede.

Figli, tra l’altro, è il film di Mattia Torre. E Mattia Torre è una calamita di sentimenti. E’ la penna che ha scritto (tra gli altri) Boris. E quel monologo – “I figli t’invecchiano” – che Mastandrea ha reso virale leggendolo in tv un po’ ovunque, è l’idea da cui nasce il lungometraggio. Ma soprattutto Mattia Torre è il papà di due figli piccoli che se n’è andato per un tumore, troppo presto, lasciando un patrimonio di creazioni ironiche e lucide che il suo entourage ha raccolto e ora ripropone col successo che meritano. Ecco, pure il cast è ristretto a quel giro di attori lì, quelli un po’ di Boris, che alcuni definirebbero i “migliori di questa generazione”: Stefano Fresi, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Massimo De Lorenzo. Magari manca un po’ della cattiveria, di Boris. Perché in fondo, Figli viene promosso come “una storia d’amore” (e lo è, perfetta, chiedete in sala all’uscita…), e anche come un “piccolo affresco dell’Italia di oggi”. Anche, magari un po’ meno, ma insomma, ci sta.

Non è la solita stanca commedia che Stanis La Rochelle avrebbe schifato come troppo “itagliana”. E’ veloce, è smart, la sempre troppo abusata voce fuori campo strappa oggettivamente più di una risata, recitata benissimo da una coppia – Mastandrea e Cortellesi – incredibilmente credibile. La regia di Giuseppe Bonito usa qualche trucchetto un po’ scontato per farsi simpatica al punto giusto, e anche i passaggi a vuoto (l’inutile cameo di Oscar Farinetti) alla fine vengono digeriti dalla vera essenza del film. Che è – appunto – quella di un’opera partecipata.

Tutti guardano e sorridono alla ragazza col pancione che ride di gusto alla fila H: perché lei è una protagonista del film. E quelli che guardandola sogghignano – le coppie che hanno lasciato i figli piccoli a casa con la babysitter – assegnando alla povera ragazza il loro stesso destino da fuggitivi della felicità casalinga, ecco, sono essi stessi protagonisti del film. E così quando l’inquadratura indugia sul faccino puccioso del bebè in braccio a Mastandrea, si solleva dalla sala un “ooooooooooohhhh” generale: giovani e vecchi, e papà preoccupati per il fantacalcio, e mamme colpevoli, e mamme future, tutti avvolti dalla stessa coperta emotiva. Tutti protagonisti. Il film va avanti tutto così, parlando al pubblico con la voce del pubblico dei sentimenti del pubblico. E a questo punto si fa anche una certa fatica a definirlo film.

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