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Ho sempre pensato a De Laurentiis come un Citizen Kane, invece è più Francesco Giuseppe

Pensavo che Ancelotti fosse una mossa del presidente per la grandezza del Napoli, invece era per il suo ego. Ma un compromesso si può sempre trovare

Ho sempre pensato a De Laurentiis come un Citizen Kane, invece è più Francesco Giuseppe

Non grandezza, ma grandeur. Seppure sembrino la stessa cosa, non lo sono. E De Laurentiis o cerca la prima per il club, o la seconda per sé stesso.

Per anni ho immaginato il presidente del Napoli come una sorta di Citizen Kane. Un uomo facoltoso, un imprenditore brillante, ma solo parzialmente consapevole del proprio privilegio. Soprattutto, un uomo pubblico con difficoltà relazionali. Per essere più preciso, vedevo in De Laurentiis una persona incapace di comprendere le ragioni dell’astio che lo circonda. Me lo figuravo chiedersi: “Perché i napoletani non mi vogliono bene?”, davvero sorpreso che ai buoni risultati della squadra non seguissero i buoni sentimenti della piazza. Che, anzi, gli rispondeva col papponismo.

L’epilogo del rapporto con Ancelotti, però, mi porta a cambiare inquadratura. Citizen Kane, per rimanere all’analogia cinematografica, è un tycoon. Il personaggio storico cui si ispirava Welles, William Randolph Hearst, ancora di più. Insomma, nella matrice della figura è forte il businessman. E in De Laurentiis, al netto dell’esuberanza del personaggio, riconoscevo l’uomo d’impresa guidato dalla razionalità dei numeri (cosa, che per chi scrive, non sarà il massimo del romanticismo, ma non è un limite).

Ma l’epilogo del rapporto con Ancelotti, dicevamo, mi porta a cambiare inquadratura. Quando il presidente del Napoli ha ingaggiato il mister di Reggiolo, ritenevo che la mossa facesse parte di una strategia per scalare le dimensioni del club. La grandezza. Invece, l’obiettivo era forse scalare le dimensioni dell’ego di De Laurentiis stesso. E per questo ora in lui vedo, più che Citizen Kane, Francesco Giuseppe d’Austria. La grandeur.

Insomma, che il sentimento di rivalsa sia un propellente per Aurelio è una cosa più o meno accettata. La vulgata vuole che nel 2013 nella decisione di prendere Rafa Benitez e i tre del Real c’entrasse molto l’offesa per l’addio di Mazzarri. È nel carattere dell’uomo. Ma nell’ultimo anno e mezzo pare essere andato oltre. L’amor proprio è esondato.

Chiedo venia agli studiosi di storia contemporanea se faccio oltraggio della materia per un’analogia tirata per i capelli. Ma Francesco Giuseppe è stato un monarca longevo: il suo regno è durato dal 1848 al 1916. È stato un imperatore munifico: rivoluzionò la pianta urbanistica di Vienna. Nelle sue mani, ciononostante, l’impero austro-ungarico si è disgregato fino a sparire. E non è un caso che in lui convivessero grandeur personale e debolezza politica. Era una compensazione. Per ogni provincia persa, per ogni rivolta a stento sedata, per ogni affronto agli Asburgo, Francesco Giuseppe rispondeva restaurando simbolicamente il proprio prestigio con qualcosa d’altro. Un palazzo, o magari un teatro.

Ecco, allora, col senno di poi, è lecito farsi delle domande. Ingaggiare Ancelotti. Non cedere Allan. Non cedere Koulibaly. Investire in Ruiz e Lozano. Quando De Laurentiis prendeva certe scelte, per chi lo faceva? Era il Citizen Kane in lui che progettava un business ancora più grande, o l’imperatore che ricostruiva il proprio orgoglio dopo aver incassato in 24 mesi il benservito da Higuaìn e Sarri? La risposta è importante, ma non esiziale. La storia del calcio è ricca di squadre legate alle necessità egotiche dei presidenti, che attraverso lo sport curavano la propria celebrità e i propri interessi. Possono essere anche storie di successo. Un compromesso si può trovare. L’importante, però, è non perdere la bussola. La confusione non giova a nessuno. Perché gli imperi, tanto, crollano lo stesso.

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