ilNapolista

“Maradona in Mexico” è un breviario dell’esistenza: «Per questo passavo sempre la palla»

Più volte, seguendo il documentario, ho pensato di aver avuto il privilegio di vedere dio nella mia vita e di non aver saputo far altro che ammazzarlo. Forse ero troppo giovane.

“Maradona in Mexico” è un breviario dell’esistenza: «Per questo passavo sempre la palla»

Avevo iniziato a guardare Maradona in Mexico con l’intenzione di prendere qualche sporadico appunto. Ho terminato la visione con un fiume di note a margine di sette puntate, come fossi uscito da un seminario su Meister Eckhart. Nel rileggerle, tuttavia, mi sono apparse sempre più incomplete ad ogni passaggio, sempre più inadeguate. Note che filtravano ma non riuscivano a cogliere o raccogliere.

L’avventura di Maradona allenatore a Culiacàn, la città messicana del capo del cartello della droga e casa della squadra di seconda divisione dei Dorados, è un piccolo breviario dell’esistenza. Se lo approcci con spirito analitico o con l’ambizione di seguire un filo di cronaca, rimani con una manciata di mosche nella mano. Peggio ancora: sempre le stesse mosche. La serie, infatti, non disegna alcuna storia né la spiega. Essa racconta la semplice crudeltà della bellezza, presentata come una prospettiva che solo i più talentuosi sanno affrontare gettandosi nelle onde del disastro. Racconta la brevità della gioia, se ne esiste una. La inspiegabilità della storia, che solo i fanatici osano interpretare.

La novella, tra il calcistico e l’eucaristico, dice che il più grande di tutti – uomo di un gioco di piedi che viene invocato dal mondo stesso perché tocchi e guarisca con la sua mano – non può sottrarsi alla sconfitta, provata e ripetuta. Ineluttabile. Per questo il calcio ha poco in comune con le religioni abramitiche e i sistemi politici ed economici assolutisti. Il gioco del pallone è greco come greci sono i suoi semidei, come greco è Maradona con la sua faccia da indio ferito a morte ma forse non finito, simile allo spirito universale che la statua del galata morente infonde agli spettatori da quasi duemila anni. La Moira è al di sopra della Mano de Dios, il destino e la sconfitta lo seguono e nulla c’è che questo eroe, calciatore o allenatore, possa fare per vincerla. Quella Mano, però, non è né un cristo redentore né l’alba dei domani che cantano. Maradona perde e non risorge. Ma, a differenza dei dodici apostoli e dei segretari di partito, balla anche se ha l’artrite ad entrambe le ginocchia e non disdegnerebbe Jennifer Lopez al suo fianco anche all’alba dei sessant’anni.

Intanto il mondo intorno grida. ¡Maradona se la come! Maradona succhia cazzi. È una bestemmia pari quasi a quelli che ne invocano la venuta (Maradona llegò, tema della sigla) per ottenere il proprio riscatto. È la bestemmia del mondo che continua a non capirci niente. Ma è anche una bestemmia riverente, come direbbe Camus, “perché ogni bestemmia, in fondo, è partecipazione al divino”.

Più volte, seguendo il documentario, ho pensato di aver avuto il privilegio di vedere dio nella mia vita e di non aver saputo far altro che ammazzarlo. Forse ero troppo giovane. Forse perché quello è il destino di ogni dono che forziamo, da vili, a verità. Maradona di verità non ne ha mai portate. È vuoto come il vaso di Pandora.

Leggo tra i miei appunti poche altre cose. Della dura e sboccata fermezza con la quale egli educa i bambini che chiedono un autografo – i bambini faranno silenzio e attenderanno in fila. Dei giocatori della sua squadra colpiti nel vederlo discorrere a lungo con i panchinari. Delle parole di Diego nel suo spogliatoio a valle di una vittoria, con le quali dice che quel momento, quel preciso momento che stanno vivendo, va assaporato, perché prezioso, perché c’è un gruppo di uomini immersi in una gioia pura e ciò non capita quasi mai nella vita. Di una vittoria desiderata perché “voglio ubriacarmi di felicità”, uno stordimento che va preparato e meritato. Di quando confessa di aver fatto parte di una generazione di calciatori che non si prendevano cura di sé stessi ma solo del divertimento sul campo. Della preghiera finale con tutta la squadra al completo.

Lo stadio, fuori, festeggia. La sconfitta dei Dorados e di Maradona. La seconda per due anni di fila. Oltre le gradinate il mondo si prepara ad un nuovo banchetto di inutilità. Conta o non conta il risultato? Ha fallito o ha avuto successo? Il finale è lieto o drammatico? Il genio continua a suonare e voi continuate a non ballare. Il più grande tra di noi si è fatto servo umile. “Per questo passavo sempre la palla”.

ilnapolista © riproduzione riservata