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Il Napoli dei De Laurentiis sfida la Lazio del 74 e il modello narrativo buonista del calcio

È un esperimento sociale: l’anaffettività e il contratto al potere: i calciatori sono dipendenti, vengono strapagati e devono stragiocare. Altro che spogliatoio spaccato. Funzionerà?

Il Napoli dei De Laurentiis sfida la Lazio del 74 e il modello narrativo buonista del calcio

Quello del Napoli va considerato un esperimento sociale, una sfida al modello narrativo calcistico imperante, ossia buonista. Il modello che esalta – fino a renderlo ridicolo – il valore del gruppo. Quest’entità metafisica profondamente distante dalla realtà. Per cui un insieme di professionisti – lautamente pagati – non fanno il proprio lavoro per la carriera e per poter guadagnare di più (oltre che per legittime soddisfazioni personali) bensì perché spinti da motivazioni legate all’appartenenza. Motivazioni che di volta in volta vengono suggellate da patti. Sarebbe magnifico utilizzare lo stesso linguaggio anche per le trattative sindacali, quelle vere: il patto per i buoni pasto, il patto contro la cassa integrazione, il patto per la riduzione degli orari di lavoro, il patto per picchiare il capo stronzo o il collega lecchino.

Perché il bello del calcio è che nessuno si rassegna al professionismo. Nessuno intende ridurlo a un complesso di diritti e di doveri. Ve l’immaginate l’operaio in fabbrica che ogni mattina dev’essere trattato bene altrimenti non lavora? Ovviamente vi scapperebbe da ridere. Ma poiché il calcio è una mega finzione, ed è soprattutto un rifugio mentale, deve sovvertire i canoni del lavoro tradizionale. Altrimenti il contesto si intristisce, pensa alle proprie otto-dieci ore di lavoro quotidiano, e il pallone non lo segue più. È il sovvertimento della teoria di Céline che nel suo Voyage – la Bibbia per noi atei – scrive:

Non avevo ancora imparato che esistono due umanità molto diverse, quella dei ricchi e quella dei poveri. Mi ci son voluti, come a tanti, vent’anni e la guerra, per imparare a starmene nella mia categoria, a chiedere il prezzo delle cose e degli esseri prima di prenderli, e soprattutto prima di attaccarmici.

Si scherza ma non troppo. A dirla tutta, non si scherza. Qual è l’esperimento che sta portando avanti il Napoli di De Laurentiis? Dimostrare, o sarebbe più corretto dire provare a dimostrare, che nel calcio si può vincere anche con l’anaffettività. Impresa che sembra complessa (anche perché siamo abituati a una narrazione opposta) ma che potrebbe – se andasse a buon fine – diventare rivoluzionaria.

Il Napoli di Aurelio De Laurentiis alza l’asticella rispetto alla mitologica Lazio del 74. In fin dei conti, lì eravamo allo smascheramento della visione ipocritamente taumaturgica dello spogliatoio. Si schifavano, si odiavano, si menavano, sparavano (senza il si), erano divisi per bande, proprio come avviene in ogni luogo di lavoro. Poi anche per la Lazio del 74 c’era la sezione romantica, ossia la domenica imperava l’uno per tutti e tutti per uno. La difesa del compagno che odio, la difesa dell’esclusiva a poter picchiarlo nella partitella del giovedì. Quella che Maestrelli protraeva finché la squadra di Chinaglia almeno non pareggiava. In quel caso, però, Lenzini era il buono, il presidente in qualche modo precursore di Mantovani.

Qui, nel Napoli, siamo oltre. De Laurentiis, a questo punti i De Laurentiis vogliono stabilire un principio (che poi è un principio valido in tutte le imprese): il dipendente fa il dipendente, rispetta le regole, se trasgredisce paga sanzioni (nel mondo reale si viene persino licenziati), e deve portare rispetto. Quindi, riportato alla dimensione  calcistica, il dipendente gioca senza fare troppe storie (uommeche, in napoletano). Viene pagato fior di quattrini e deve quindi buttare quel pallone dentro. È la visione meccanicistico-capitalistica del football.

È la visione dei De Laurentiis che dalla sera dell’ammutinamento non hanno compiuto un solo passo per provare a svelenire il clima. Non intendono farlo perché ritengono di aver subito un torto, un grave torto, da parte dei loro dipendenti. E qui si aggiunge un interessante spaccato. Il popolo, il pueblo, che già di suo detesta i De Laurentiis, dopo l’iniziale condanna nei confronti dei calciatori ammutinati, adesso sta lentamente tornando sulle proprie posizioni. Il calciatore è di nuovo visto come il povero dipendente spiegazzato, e il padrone come colui il quale sta rovinando il giocattolo. È tutto stato più evidente dopo le dichiarazioni di Edo De Laurentiis che ha elogiato i calciatori del primo Napoli, Montervino e Calaiò, ha parlato di maggior attaccamento alla maglia da parte loro e anche di attributi. Le palle. Perché il gergo machista resta fondamentale nel calcio, lo usano sempre i tifosi quando gridano: “Fuori le palle!”.

Per farla breve, i De Laurentiis sfidano la retorica mielosa del calcio. Se ne sbattono di fare le moine ai calciatori. Hanno un azienda, un libro contabile, pagano fiori di milioni e pretendono i risultati. Senza tante storie. È il calcio anaffettivo e a-ipocrita. Per verificare se produrrà risultati, bisognerà aspettare sabato prossimo quando si giocherà Milan-Napoli. Se dovesse andar male, il colpevole – anzi i colpevoli – è già stato individuato. In caso di successo degli azzurri, invece, sarà certamente utilizzato l’antidoto retorico: l’odio verso De Laurentiis ha ricompattato il gruppo, lo ha avvicinato ad Ancelotti. E ovviamente avrà prodotto qualche tipo di patto. Comunque vada, il padrone ne uscirà sconfitto. Nel calcio raccontato, of course. Altrimenti che evasione è?

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