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Ancelotti l’uomo cui piace l’odore del napalm al mattino

Come tutti i fuoriclasse, dà il meglio di sé nei momenti difficili. Ha messo i panni sporchi in piazza e ha ritrovato una squadra. La reazione al 2-2 è la summa dei suoi insegnamenti

Ancelotti l’uomo cui piace l’odore del napalm al mattino
Robert Duvall in Apocalypse Now

Napoli aveva bisogno di lui. Lo sapeva, lo sa. E proprio perché lo sa, si ribella con tutte le proprie forze. Fa finta che non sia così. Prova a sminuirlo. Perché troppo grande sarebbe il dolore in caso di insuccesso. Napoli è fatta così. Ha avuto bisogno del più forte calciatore di tutti i tempi per vincere. In cuor suo, sente che non accadrà più. In cuor suo, sa che abbiamo bisogno di un uomo che si scalda quando sale la tensione. Che quando il gioco si fa duro, sorride sornione, il battito del cuore si mette a proprio agio, vive la propria condizione ideale. Nuota nel suo mare.

Quell’uomo è ovviamente Carlo Ancelotti. L’uomo che sa giocare i tie-break. Il fuoriclasse. Che quasi si annoia quando la posta in palio non lo eccita.

Quando sente profumo di Champions, sul volto di Ancelotti si fa strada quella smorfia di piacere che non sfocia nel sorriso di Joker (più di Jack Nicholson che di Joaquin Phoenix) solo perché non appartiene a un figlio della Bassa. Uno che non sbeffeggia mai nessuno.

Quando il gioco si fa duro, potremmo dire incasinato, complicato, si sente a suo agio. Gli piace l’odore del napalm al mattino. Come Robert Duvall in Apocalypse Now.

Potrebbe star lì a dire che lui ne ha viste di peggiori, ben peggiori. Ha vinto Champions partendo dai preliminari. È andato avanti segnando nei minuti di recupero. Ha vinto la Décima quando il tempo era quasi scaduto. Sì ok l’ha pareggiata ma di fatto quel gol di Sergio Ramos fu un gol vittoria. E ne ha perse anche, come tutti i vincenti.

E il napalm di Ancelotti, fino alla serata di Salisburgo, era una squadra che ultimamente stentava a ritrovarsi dopo un anno buono (nonostante le balorde critiche dei sapientoni, anzi degli scienziati) che sembrava il preludio di un anno ottimo. Una squadra con dissidi interni manifesti. È stato lui a mettere i panni sporchi in piazza. Perché uno come Ancelotti non può non sapere che sbattere Insigne in tribuna a Genk equivale a stendere i panni in piazza del Plebiscito. Uno che a Napoli deve sorbirsi ridicole – e siamo buoni – accuse per la condizione atletica e poi a Salisburgo la sua squadra corre più degli uomini Red Bull.

Qualsiasi altro, ieri sera, sarebbe andato in conferenza stampa a rivendicare chissà cosa. Ancelotti invece ha detto che Luperto è il simbolo di questo Napoli. Luperto. Che nel calcio conta più la testa che la strategia. Che aveva predetto a Insigne che sarebbe stato decisivo, dopo avergli detto che si sarebbe accomodato in panchina a fianco a lui. Che se le scaramucce ridanno energia ai calciatori, a Insigne, ben vengano. Una scaramuccia al giro leva il medico di torno, ha detto. Dopo la tribuna a Genk, la panchina a Salisburgo. E qualcuno continua a definirlo morbido.

Non ha bisogno di ricordare che il Napoli non vinceva in Champions da tre anni. Lo fa dire ad altri. Rovinerebbe il gesto. Torniamo ad Alì-Foreman. Ne abbiamo scritto mille volte. Non sporcò il gesto con il destro, si limitò a vederlo cadere davanti ai suoi piedi come un sacco vuoto. Avrebbe sporcato la vittoria.

Ancelotti ha gestito una situazione complicata. Con l’entorno – l’ambiente – che ormai era completamente impazzito. Come spesso capita a Napoli. Che vive di ricordi. Di nostalgie. E non si accorge che il primo gol di ieri sera è l’apoteosi del calcio verticale. Si va in porta con quattro tocchi. Unisci i puntini. In verticale. Perché Ancelotti ha giocato in mille modi. E vuole giocare in altri mille diversi. Perché si diverte a cambiare. Perché non sta mai a pensare a ieri. A ripetere il gesto. Si annoierebbe. Ha accettato Napoli perché pensava e pensa di divertirsi. Innanzitutto con la squadra. E poi con l’entorno. Lo ricordava diverso, lo ricordava un ambiente impossibile. Lo aveva vissuto da avversario e ne portava rispetto, seppure da avversario.

A Salisburgo è capitato quel che succede a chi studia per un esame all’università. O a chi ripete mille volte un gesto. Improvvisamente, quando pensi di non poter mai farcela, tutti gli sforzi fatti vengono ripagati. Tutte le lezioni tornano in mente. È successo sul 2-2. A venti minuti dalla fine. Quando il Napoli si è fatto raggiungere per la seconda volta. Mentre la prima volta è stata legittima, un pareggio meritato per quel che si è visto in campo. La seconda volta è stata una terribile amnesia difensiva. Koulibaly e compagni hanno dimenticato in area quel gran pezzo di centravanti che è il norvegese Haaland. Un erroraccio.

È stato il momento in cui anche il Napoli ha capito che gli piace l’odore del napalm al mattino. Tutti hanno pensato che sarebbe stata dura, qualcuno (più di qualcuno) finanche che avremmo perso. Nessuno avrebbe scommesso un euro sulla ripresa arrembante del Napoli, sul gol alla prima azione. Con Insigne. Che a quel punto, dopo aver capitalizzato l’assist dell’inesauribile Mertens, poteva scegliere: un’esultanza indispettita, rancorosa, o un’esultanza da capitano. Ha scelto. È andato ad abbracciare Ancelotti Robert Duvall. Non proprio abbracciare. Hanno esultato insieme, come due amici allo stadio. Quella esultanza collettiva è stata la risposta a tutte le scempiaggini lette peer due settimane. È stata una risata bella, chiatta chiatta.

Ha abbracciato Ancelotti che lo aveva relegato in panchina anche a Salisburgo. In campo ha rimesso dal primo minuto Lozano. Milik, preannunciato in formazione da De Laurentiis, è rimasto seduto anche lui. Persino per tutto il tempo. Si è alzato giusto per scaldarsi un po’. Poi, però, è entrato Llorente.

Perché Ancelotti sarà pure ex sacchiano, ma il senso del gruppo ce l’ha eccome. Altro che ex. Crede soltanto che a calcio non si giochi in un modo solo. Ma i principi sono rimasti quelli. Stasera ha vinto la squadra Napoli. Senza Manolas. Senza Milik. Senza terzini sinistri di ruolo. Con Insigne entrato nel secondo tempo. Ha vinto il Napoli. Che oggi è una squadra composta da venti elementi, anzi di più. Che nella partita più importante, quella in cui ci si giocava di più, non ha avuto timore di schierare dal primo minuto Luperto.

Ancelotti sa come si fa. Riserva a Mertens il trattamento Ribery. Lo bacia. Ma non per rabbonirlo dopo una sostituzione. Per ringraziarlo. È finita con la vittoria. Col gol decisivo di Insigne. Con le scuse pubbliche del capitano all’allenatore. Con una squadra che ora può guardarsi allo specchio e dirsi che ha reagito dopo un gol che a tante italiane avrebbe piegato le gambe. Adesso, sa che può farlo. E senza il napalm non lo avrebbe capito.

Napoli ha capito ma tante altre volte farà finta di no. Però stasera si è esaltata. Ha vissuto le emozioni del calcio. Lo sa, lo ha sempre saputo, che per vincere bisogna soffrire. Ma costa troppo dolore. Non vuole. Sa che non riesce a sopportarlo. Ma sa anche che chi comanda le truppe è uno che senza sofferenza non si diverte. Sa che senza sofferenza non si vince niente. Non si migliora mai.

E, soprattutto, lui – a differenza del tenente colonnello William “Bill” Kilgore – si diverte proprio sul campo. Non ha bisogno di fare surf.

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