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A furia di dover dimostrare, Mertens ha superato Maradona

A 15 anni l’Anderlecht lo scartò perché era troppo piccolo. Poi ha eguagliato Nordahl, si è fermato a due minuti da Valentino Mazzola. Ha il 14 di Cruyff. È nella storia del Napoli

A furia di dover dimostrare, Mertens ha superato Maradona

Gironzola per il campo, con un’espressione seria fuori dal contesto. Si abbracciano tutti, Insigne poco prima ha festeggiato il gol del 3-2 al Salisburgo correndo a stringere Ancelotti, e tra un po’ negli spogliatoi scenderà De Laurentiis e si aggrapperà al tecnico col sorriso del primato del girone di Champions. C’è un pride napoletano in corso alla Red Bull Arena, e Dries Mertens ci galleggia sopra. Dà una mano qua, un pugnetto là, col piumino per non prender freddo dopo la sostituzione. Ma ha quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che ha solo lui prima di entrare nella storia.
Una volta, quando il nome di Diego Armando Maradona accostato al suo sarebbe suonato bestemmia, e con la sua carriera di bomber appena in forma embrionale, Mertens – già Ciro – avrebbe preteso il pizzicotto del risveglio: “Non mi rendo ancora conto di quello che ho fatto, devo prima andare a casa e pensarci bene”. Funzionava così, prima. Ora no.

Adesso porta l’oro di Maradona sulle spalle con una compostezza e una sobrietà che intirizziscono quasi: “non ho ancora finito con voi”, pare dire con lo sguardo. Poi si scioglie nella festa, come tutti. Ma Dries Mertens ora – e forse solo ora – è ufficialmente Dries-Mertens-e-basta. Lo “strapagato” attaccante re di Napoli, con la testa alta di chi ha passato tutta la carriera azzurra a prendersi il trono centimetro dopo centimetro, panchina dopo panchina, critica dopo critica, allenatore dopo allenatore. Con una insana determinazione che altrove diventerebbe romanzo, e che qui resta ancora un felice incidente, un caso fortuito, una piega dritta del caos partenopeo.

Che poi Maradona, e il record, sono un feticcio. Il primo gol della sua vita azzurra l’ha segnato il 30 ottobre 2013, nel giorno del compleanno del Pibe, e quel giorno ha preso appuntamento col destino. Ce l’aveva in agenda. Una serata infrasettimanale in Austria che aveva delle premesse talmente pericolanti da essere perfetta per costruirci sopra un capolavoro inevitabile: Milik ha appena segnato due gol in campionato e il presidente lo mette in formazione pubblicamente, Ancelotti invece lascia fuori lui e di nuovo Insigne per rilanciare Lozano, il circo mediatico nel frattempo alimenta la suggestione Ibrahimovic. Poche ore prima lo stesso De Laurentiis ha definito “strapagati” Mertens e Callejon. Al 17′ minuto del primo tempo Callejon di testa libera Mertens: gol. Callejon e Mertens. I fatti e le parole, un lampo. Mertens raggiunge Maradona. Poi lo supera col raddoppio, ma non è più nemmeno Maradona il punto. Mertens s’è già preso tutto, in silenzio. Ala, mezzapunta, centravanti. Benitez, Sarri, Ancelotti. Le chiacchiere stanno a zero, i ruoli non esistono, i numeri sono tutti suoi. E ha una storia già scritta, e la sta raccontando ora. Conviene godercelo, perché se Coline Trainor su StatsBomb ha ragione, gli attaccanti raggiungono il picco delle proprie prestazioni tra i 27 e i 28 anni di età, poi il declino. A occhio, documenti alla mano, abbiamo la classica eccezione che conferma la regola.

DA PICCOLO TROPPO PICCOLO

Mertens a 15 anni viene fatto fuori dall’accademia dell’Anderlecht perché i tecnici lo vedono troppo piccolo. Lui questa etichetta l’ha sempre rielaborata: non troppo basso… proprio “troppo piccolo”, non pronto. È un dettaglio semantico, ma c’è tutto Mertens: l’altezza non cambia, il resto si allena. Comincia così il calvario di dimostrazioni costanti che lo accompagna per tutta la carriera. Nel 2007 viene premiato come miglior giocatore della terza Divisione belga, alla sua prima annata da titolare all’Eendracht Aalst. Non basta. Né l’Anderlecht – che l’ha allevato – né il Gent lo reputano “adatto”. Ci crede l’AGOVV Apeldoorn e lo mette agli ordini di John van de Brom. È il marzo del 2009, e prima di terminare il secondo anno lo prende per 600.000 euro l’Utrecht FC. Poiché il destino è un animale dotato di una certa ironia, debutta in Europa League contro il Napoli nel settembre del 2010, dopo aver eliminato il Celtic di Glasgow. In Olanda fa 21 gol e 34 assist in 86 partite. Lo vuole l’Ajax ma lo prende il PSV Eindhoven con Strootman, 13 milioni per entrambi. Due anni, il tempo di vincere un paio di titoli, di ritrovare il Napoli in Europa e di farsi mettere sul taccuino degli osservatori di Benitez.

Quel Dries non esiste più da un po’. L’ala dribblomane veloce e un po’ caotica, che a Napoli trova sulla sua mattonella Insigne e il suo “tiraggiro”, è una sorpresa ma non un pacco. Ha uno stile diretto e affilato. Ed è il primo tormentone che nasce e non gli si scollerà più di dosso: “Sì, ma Insigne difende meglio”. L’altro, che di questo è figlio, è “rende meglio quando entra a partita in corso”. Lo dirà esplicitamente anche Sarri, più volte, prima di scoprirlo centravanti. Benitez, che impone a Insigne una copertura quasi da terzino avanzato, non lo vede per quel che è. Il fatto è che “quel che è” non c’è ancora. È una cometa tattica ancora lontana. In tv un tecnico pronostica che “Mertens non farà più di 8 partite da titolare nel Napoli”, e almeno lui diventerà leggenda. Possiamo dirlo, non si offende: è Eziolino Capuano.

Eppure nel suo primo gol in serie A c’è già tutto, indizi ovunque. C’è il centravanti vero che, anche da esploso, definiscono ancora “falso”, figurarsi quando ancora nessuno l’ha riconosciuto. Il 30 ottobre 2013 Mertens gioca titolare a Firenze. Sull’1-1 prende palla sulla trequarti, in posizione centrale, triangolo con Higuain, entra in area e segna. Ne segnerà altri 115 in maglia azzurra. Ma quel giorno è una crepa nella storia.

Pure il secondo gol è da centravanti. Contro l’Inter di Mazzarri calcia dal limite dell’area e la “bbbutta” dentro. La “bbbutta” proprio, con tutte le “b” che l’onomatopea ci consente per calcare il concetto: forte come fanno le punte forti e alte, quelle che pensano solo al gol. Solo a quello. “Benitez ci rende migliori” dice, in quella stagione raccoglie 22.4 passaggi di media, 5 assist e 1.6 passaggi chiave a partita. Il centravanti è lì dentro, chiuso col lucchetto in una matrioska concentrata. Lo dicono persino i numeri: tira 2.6 volte in media ogni partita, solo Higuain fa meglio.

Quel Mertens lì è solo un progetto. La bozza di un giocatore che migliora sempre, come fanno i campioni a cui questa dote viene riconosciuta con tutta l’ammirazione del caso: Cristiano Ronaldo, o Federer e Nadal. L’evoluzione tattica e tecnica. L’abnegazione, lo spirito. Sempre segnando, come se fosse un binario unico in direzione Mertens 2019.

Finisce il suo primo campionato azzurro con 11 gol, da riserva nel turnover scientifico di Benitez. Nel secondo anno del tecnico spagnolo, quello abbacchiato, si ferma a 6. Tira meno (1.9 conclusioni di media), ma a parità di passaggi e di occasioni create, serve più assist: cerca insistentemente la verticalizzazione in un Napoli che estremizza la ricerca della porta attraverso l’azione manovrata palla a terra. Poi arriva Sarri.

POI ARRIVA SARRI, MA SARRI CI ARRIVA POI

Al primo anno con Sarri, Mertens è la riserva di Insigne in una formazione semi-bloccata, alla vecchia maniera. Ci sono i titolarissimi. E lui è una riservissima, di quelle brave “a entrare e spaccare le partite”. Uno sfondone tattico impronosticabile, quasi per tutti. Sarri gli concede 1086 minuti in campionato, dodicesimo minutaggio della rosa, solo 6 partite da titolare. Fa in tutto 5 gol in 31 presenze mozze, all’ombra dei record di Higuain. Poi Higuain va via, Milik si fa male subito e tocca a Gabbiadini. E ci siamo: seconda crepa nella storia.

L’intuizione di Sarri è in realtà una mossa della disperazione, ci vuole sempre un’emergenza per inventarsi una soluzione improbabile. Due le giornate di squalifica per Gabbiadini, Empoli e Juventus in calendario e il Napoli non ha un centravanti. Però ha Mertens, l’uomo che punta la porta, che usa il corpo per difendere il pallone, che segna gol mai banali, che ha un cambio di direzione improvviso che in rosa non ha uguali. Mertens ha rapidità d’esecuzione ed è anche un benedetto individualista. Uno di quelli con l’istinto di uccidere, che prova la giocata dove altri piazzerebbero una mossa più razionale e conservativa. Mertens è un centravanti, anche se non fa il centravanti. Sarri poi lo ammetterà:

“Su di lui abbiamo sbagliato tutti, me compreso, era già un attaccante centrale nato dopo un mese e noi lo ritenevamo un fenomeno a partita in corso…”

Strappato alla zona di comfort, quella a cui ancora è inchiodato Insigne, vicino alla linea laterale, Mertens prende in carico la responsabilità del ruolo, libera la creatività, aggiunge complessità ai suoi movimenti, il suo gioco si allarga in tre dimensioni. Con un’intensità fisica e mentale impressionante: una specie di frullatore in orizzontale e verticale. Gioca di prima per dare ritmo al palleggio, poi attacca la profondità dietro i difensori, fa assist geniali. Inventa potenziali occasioni dal nulla. Indossa il numero 14, quello di Cruyff, l’alfiere del calcio totale. E nel Napoli del tiqui-taca vertical sembra sempre navigare fuori dall’area di rigore a dettare le sponde per i compagni, ma poi un attimo dopo è nell’area piccola, sbucato dal prato come nella gag di Aldo Giovanni e Giacomo, quella della partitella in spiaggia.

Poche settimane fa Mertens ha riesumato questa faticosa gavetta fatta con Sarri alla soglia dei 30 anni:

“Non mi piace usare la parola ingiustizia. Ho ricevuto una buona educazione e questo mi ha aiutato a rimanere paziente. Ma ero molto frustrato. Avevo parlato mesi prima con Sarri quando le cose non andavano bene. Nella sua prima stagione ho giocato sei volte titolare. Ogni settimana mi chiamava nel suo ufficio e mi diceva quanto gli dispiacesse il fatto di mettermi in panchina. Mi ha fatto impazzire e spesso mi ha fatto arrabbiare. Ci sono stati momenti davvero molto difficili. Mi disse di capirlo e di sperare un giorno potessi diventare allenatore per comprendere le scelte. Un giorno contro la Samp ero così stufo della situazione che avevo deciso che avrei giocato male. Ma Sarri mi ha conosciuto fino in fondo, sapeva che non ero in grado di sostenerlo per più di cinque minuti. E aveva ragione”.

L’UOMO DEI RECORD

Il record di Maradona. Ok. Ma il resto? I 116 gol col Napoli di Mertens contengono un piccolo mondo fatto di bellezza e sorpresa. C’è stato un momento, in questa lunga corsa, in cui in appena due partite di campionato, per 165 minuti complessivi, ha tirato 16 volte in porta segnando 7 gol: una rete ogni 23 minuti e mezzo. È stato il primo giocatore dal 2014 a segnare 4 gol nella stessa partita. Il primo giocatore a realizzare almeno una tripletta in due partite consecutive di Serie A dal 1994-95. Il primo giocatore dal 1955 a realizzare 7 gol in 2 partite. L’ultimo era stato Gunnar Nordahl. Ha segnato la quarta tripletta più veloce della storia della Serie A, meglio di lui solo Valentino Mazzola in 2 minuti contro il Vicenza nel 1947, Pietro Anastasi contro la Lazio nel 1975, Marco van Basten contro l’Atalanta nel 1992.

La verità è che Dries ha sempre segnato. Sempre. “Una bestia affamata di gol”, lo ha definito Sarri stesso. Gol in tutti i modi: punizioni e rigori, destro, sinistro e testa, in tuffo o palla a terra. Non ha vinto il titolo di capocannoniere per un’inezia: un gol sotto i 29 di Dzeko. E detiene un altro record: nel 2017 ha partecipato a 35 gol: 24 gol e 11 assist.

I GOL, APPUNTO

Sono 116, i gol nel Napoli. Scriverlo è ridondante ma taumaturgico, fa bene alla salute insomma. Ma l’elenco si presta a un giochino: quali sono i più belli, i migliori, i più importanti. E invece, i gol funzionano anche come aggettivi, parlano di Mertens, della sua crescita, della sua insistenza nel disegnarsi un futuro su un presente già cucitogli addosso. Ne abbiamo scelti tre, ma potevano essere 50. Lui ne conserva un altro nel cuore, ma non è col Napoli, quindi non vale:

Il mio miglior gol l’ho segnato a Utrecht. Abbiamo vinto 4-0 o 5-0, io ho fatto una tripletta, un tiro al volo da metà campo! Volevamo giocare per un compagno di squadra che era stato ferito la settimana prima e che era a rischio di paralisi”.

Il primo NON è il gol al Torino. E’ il gol del 2-1 al Genoa il 24 ottobre 2017, a Marassi. Perché rappresenta Mertens in purezza, nella sua versione bomber alla Romario. Uno stop e tiro con due tocchi in meno di un secondo, e palla nel sette del primo palo quasi dalla linea di fondo, sulla testa del portiere in uscita.

Il secondo NON è il gol al Torino. Ma il motivo della scelta è lo stesso: Maradona. Il gol del momentaneo 1-3 all’Olimpico contro la Lazio il 20 settembre del 2017. Pallonetto di destro alla cieca, schiena alla porta dopo uscita larga di Strakosha, quasi dalla linea laterale. Terribilmente simile a quello che il Pibe segnò il il 24 febbraio 1985, proprio alla Lazio, con Nando Orsi in porta.

Il terzo gol… sì, è il gol al Torino. Famigerato. Il quarto di quattro gol segnati il 18 dicembre 2016. Il gol più pretenzioso e folle della sua carriera. Il gol dell’istinto e dell’incantesimo: riceve palla spalle alla porta, in posizione laterale, è fuori equilibrio, con l’intera linea difensiva davanti a lui in area. Calcia sotto con un lieve effetto di collo-interno. Un gol di una bellezza brutale: non ha importanza dove sia, contro chi, in che modo… bisogna segnare, e se per farlo tocca inventarsi una parabola impossibile, beh, basta renderla possibile.

CIRO

“Se vuole andare in Cina a fare le marchette e una vita di merda per soldi, vada pure”. De Laurentiis sa che uno che di nome fa Ciro pure se all’anagrafe è Dries, in Cina a fare le marchette difficilmente ci finirà. Non è ‘sta gran premonizione, l’ha detto lui stesso:

“Non mi vedo firmare in Cina o in Qatar: come ho detto, spero di giocare il più a lungo possibile in vetta. La vita è strana: mi è stato spesso detto che ero piuttosto adatto al calcio spagnolo, tecnico, vivace e piccolo, ma non ho mai ricevuto un’offerta dalla Spagna. Non mi sono mai pentito di aver firmato a Napoli: sono stato felice sin dal primo giorno”

E’ che non si chiama Ciro per un vezzo dei tifosi. E’ un napoletano nato in Belgio. E’ uno che ha preso la cartolina, l’ha piegata in quattro e l’ha buttata nella munnezza. Ciro è il calciatore che gira in motorino con la moglie Katrin, come uno scugnizzo qualunque. Ciro è uno che se non segna prende lo scappellotto dalla sua vicina over 70: “Tutte le mattine viene a dirmi ‘Hai giocato bene eh, complimenti’. Oppure, se ho giocato male, mi dà qualche schiaffo e mi dice che potevo fare meglio. In Belgio mica è così”.

E anche la signora ha notato che se Ciro fa tardi, la sera, non è solo per andare a cena: “Quando di notte lo vedevo rientrare tardi, immaginavo che si desse alla bella vita. Poi abbiamo saputo che comprava le pizze e andava in giro per regalarle ai senzatetto”. Sì, quella volta che appena rientrato da una trasferta a Torino indossò un cappellino con la visiera, riempì la macchina di pizze e andò alla stazione Centrale a distribuire tranci ai senzatetto. “Oggi tutti hanno detto che avevo fame perché mi sono divorato molti gol  scrisse in un sms ad un amico – andiamo a portare del cibo a chi è affamato davvero”.

Ciro è quello che una volta ha simulato la marcia nuziale con la piccola Azzurra in braccio, una bambina malata di leucemia, in una corsia dell’Ospedale Pausilipon. Ciro è quello che usò i suoi social per il canile La Fenice: “Ho visto tanti cani abbandonati. Vi chiedo di aiutarmi a trovargli una famiglia, diventa membro della nostra squadra”. Ciro è quello che per la sua passione per i cani esultò per un gol all’Olimpico di Roma mimando la sua inseparabile cagnolina Juliette che faceva pipì. Ciro è quello che quando esulta ha sempre una dedica ad un amico, che sia il magazziniere ballerino o il suo amico tassista “incinto”.

Ciro Mertens ora è Dries-Mertens-e-basta. La riserva di Insigne diventerà il bomber più prolifico della storia azzurra. Non ha più bisogno di paragoni, e nemmeno di nomignoli. S’è preso il Napoli, e s’è ripreso la sua carriera un’infinità di volte. In silenzio e a testa basta, per alzarla al momento giusto. Ha sparpagliato sorrisi in otto anni di Napoli, per restare serio quando tutti ridevano grazie a lui. Ha stra-ripagato tutti. E con noi non ha ancora finito.

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