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Napoli ingannata da Sarri è roba da Facebook. La vita è un’altra cosa

Chi è davvero cascato nella favola del Comandante senza macchia? A mio avviso una minoranza ultrapoliticizzata e poco più

Napoli ingannata da Sarri è roba da Facebook. La vita è un’altra cosa

Cerchiamo di essere più chiari, caro Max, cari amici napolisti. Chi ha ingannato chi? Mi assumo la responsabilità di ciò che dico. Non credo che Napoli sia caduta più di tanto nella trappola sarrista. Lo so, lo so, ho contro tutti, perfino la Treccani che recita, alla voce “sarrismo”: “La concezione del gioco del calcio propugnata dall’allenatore Maurizio Sarri, fondata sulla velocità e la propensione offensiva; per estensione, l’interpretazione della personalità di Sarri come espressione sanguigna dell’anima popolare della città di Napoli e del suo tifo”.

Chi è davvero cascato nella favola del Comandante senza macchia?

Ma dobbiamo distinguere, sennò rischiamo l’ideologizzazione, che è proprio quanto stigmatizziamo in queste ore. Chi è davvero cascato nella favola del Comandante senza macchia? A mio avviso una minoranza ultrapoliticizzata e poco più. Ed è stata una minoranza ultrapoliticizzata (e rumorosa) ad inventare la narrazione – certo, trovando una sponda nello stesso tecnico toscano – usando sapientemente i social (spesso da fuori Napoli, al netto delle accuse lanciate agli avversari del proverbiale tifo “da tastiera” e “da divano”) ma alla fine senza ironia (l’ironia avrebbe salvato in parte l’operazione, ad esempio si sarebbe potuto cambiare i nomi di gruppi e pagine, che so, in “Sarrismo capitale e reazione”, “Il Papponegno”, e riderci sopra, ridersi sopra). Il resto della città?

Gli ultrà hanno solo cavalcato il sarrismo, senza crederci più di tanto; a loro interessava ed interessa soltanto la guerra al Pappone e null’altro. Il grosso della tifoseria ha amato il gioco di Sarri perché pirotecnico, aggressivo, spettacolare, quanto quello che fece innamorare Napoli negli anni ’70 di Vinicio. Glielo possiamo rimproverare?

Napoli è premoderna ma anche postmoderna

Napoli è una città del mediterraneo, si innamora, si fa irretire, o persuadere, fate voi, dalle persone in carne ed ossa che presentino un “charisma”, più che dai sistemi, dalle astrazioni filosofiche, è ciò che nessun giacobino capirà mai; il politologo Gianfranco Miglio parlava, se non ricordo male, di strutture personalistiche del potere nel mediterraneo, e si potrebbero tirare in ballo i greci e il cattolicesimo, se volessimo approfondire. È un limite? Un portato della premodernità presunta della città? Masianellismo? No, Napoli è premoderna ma anche postmoderna, da questo punto di vista.

Se Trump è stato preceduto, in quello che in tanti studiosi (da ultimo, Bannon e Dugin, in passato Maffesoli e Baudrillard) definiscono il “laboratorio Italia”, dal grande successo di Berlusconi ormai anni or sono, contemporaneamente a quell’avvento a Napoli vivevamo la contraddittoria stagione del bassolinismo. Erano gli anni della “rivoluzione dei sindaci”, Orlando a Palermo, Antonio Bassolino, da qualcuno definito allora il “Khomeyni rosso”, a Napoli, uomini carismatici, uomini di una certa tempra, leader piuttosto diversi da quella della prima repubblica. Non è un caso che anche l’ex governatore in queste ore sente di dover dire la sua su Sarri. Il sud e Napoli hanno avuto sempre bisogno di certe figure, e pensiamo ovviamente a Maradona, che sommava in sé la divinità e il capo politico e che nell’agiografia di Kusturica spiega l’importanza di vincere contro la Juventus, la squadra del potere, del nord, degli Agnelli, del capitalismo italiano.

Sarri non è mai stato il nuovo Maradona

L’innamoramento per Sarri fa parte di questo DNA ma, ribadisco, si deve procedere cum jujcio: Sarri non è mai stato il nuovo Maradona, non scherziamo. Lo sarebbe potuto diventare solo vincendo lo scudetto, forse. Napoli se ne è invaghita ma mantenendo di fondo un disincanto che traspare in queste ore nelle risposte delle persone comuni che incontriamo per strada ed interroghiamo sulla questione, nei loro sguardi. La stessa ricetta collettivista e calvinista dell’uomo di Figline Valdarno strideva in fondo col maradonismo, ultima ideologia profonda della città.

Conosciamo il ragionamento che piace a un bel po’ di napolisti, a te che sei il direttore della testata, in genere all’intellettualità illuminata. Potremmo chiamarlo: “cardine dell’occidente”. Vale per Sarri, per Hamsik, per Totti a Roma e per tutte le bandiere. Fa: “Se in occidente niente dura, perché devono durare le bandiere? Compriamo cose che sappiamo già che non dureranno, se hanno la scadenza le aragoste perché non possono averla le icone? E al di là di tutto, se hanno un termine perfino le nostre vite, perché non ne debbono avere certi affetti, certi simboli? Perché ancora questo amore dissennato che a volta si tramuta in odio?”.

La risposta ce la danno in queste ore i lavoratori della Whirlpool che attuano la loro protesta fuori ai cancelli della fabbrica di Via Argine. Contro l’evidenza, forse, contro le regole del mercato, certamente, contro la stessa finitezza di tutte le cose della vita, l’uomo vuole durare. Vale per tutto, per ogni sua impresa e credenza. Forse nel nostro paese, restando nel campo del lavoro, il rilievo ci chiarisce qualcosa in più e ci spiega dove la cultura politica nostrana, socialista e/o cattolica, abbia davvero fallito, non riuscendo a fornire una risposta allo storico transito dalla schiavitù del posto fisso a quella di un precariato che non consente di dar vita a famiglie, amicizie, legami più o meno stabili.

L’attaccamento ai simboli, alle bandiere

L’attaccamento ai simboli, alle bandiere. L’enfasi sul tradimento, la parola data. Tutto ciò fa parte dell’umano, occidente o meno. L’importante è durare, volendo parafrasare il poeta Malgioglio, ed è una volontà che ha a che fare con gli individui e le comunità, le vite e le fedi, le icone. E non può non venire in mente Mohammad Alì che combatte contro Earnie Shavers nel ‘77, senza arrendersi all’irreversibile declino, e che, ancora, gravemente malato, diviene simbolo delle Olimpiadi del ’96, con quella immagine cristica – l’analogia con Wojtila ci sta tutta – di un uomo alla fine del suo viaggio che regge con la mano destra la fiaccola olimpica emozionando il mondo.

Per dire, cari amici, che se il messaggio deve essere “non fatevi prendere per il culo dal primo che arriva”, ci sto, figuratevi se posso dissentire, avendo stracciato regolarmente ogni tessera ricevuta, da quella al principale partito della sinistra a quella rafaelita. Ma se si vuol ridurre lo sport a puro divertissement ed evasione, e i tifosi a meri spettatori, devo ricorrere ai distinguo – credo non sofistici – di cui sopra: le storie, le narrazioni hanno diritto di cittadinanza nel gioco almeno quanto l’epica e la lotta che l’atleta esprime nell’agone, e pretendere di espellerle da quella forma culturale che è lo sport (dopo averlo fatto con la politica e la religione) non può che impoverire una passione che ancora ci coinvolge in maniera smodata.

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