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Il gioco di Sarri? Confesso che ho vissuto

Il “tradimento” sgombra il campo dalle nostalgie. E il buon Ancelotti può finalmente lavorare in pace senza salvare Napoli dai suoi guai

Il gioco di Sarri? Confesso che ho vissuto

Alla fine ce l’ha fatta. Sarri torna in Italia, destinazione Palazzo. Entra, da rivoluzionario a tempo determinato, nei ranghi della Juve e dice di starci bene. Non desiderava altro.

Le parole risentite di Vittorio Zambardino e quelle stranianti di Massimiliano Gallo sul Napolista sono del tutto condivisibili. Sono una messa in guardia dalle ingenuità collettive, dalla mitizzazione a buon prezzo di rivoluzionari alla ricerca (giustamente) di soldi e successi. Ne è nato (e continua) un dibattito urticante su sarrismo, pentimenti e rese dei conti.

“Mai la Juve”

Chi aveva puntato le sue fiches sulla sincerità “rivoluzionaria” di Sarri schierato contro il Palazzo sabaudo si è dovuto ricredere. “Mai e poi mai andrei alla Juve”, dichiarava il Comandante al popolo napoletano, senza che nessuno glielo chiedesse. “Mai e poi mai andrà alla Juve”, pensavano i fan del Comandante e dei 91 punti di due stagioni fa, senza che nessuno li avvertisse della realtà e delle trattative in corso.

Alla fine è andata com’è andata. Fatto l’anno sabbatico a Londra, Sarri  è entrato nei ranghi della società bianconera, tra lo sconcerto della tifoseria azzurra, almeno di quella “credente” sull’indissolubilità dei matrimoni calcistici.

Invocato per questo il Dio Mercato. Ha agito da professionista, si è detto. In queste occasioni, in genere, tutti alzano le mani in segno di giusta resa. Avevano tifato, riconoscenti, anche per il Chelsea i sarristi incalliti. Professionista sì, ma in Inghilterra. Vada per il globalismo e il mercatismo, ma un po’ di senso d’appartenenza non ci sta così male. Monumento Maradona docet.

Partiamo da un presupposto. L’opera d’arte è cosa diversa da chi l’ha creata. Si può ammirare la Cappella Sistina senza per questo essere costretti ad ammirare Michelangelo come uomo. Scendendo nel profano, si può amare il gioco di Sarri, con i suoi rimandi terreni, senza per questo fare l’elegia del suo creatore o pensare a una revanche  attraverso il pallone. Ha ragione chi sostiene che la città ha abboccato all’ennesima illusione “rivoluzionaria” e al  riflesso tutto napoletano di inventarsi capi-popolo a tempo determinato, rivoluzioni dal fiato corto e cheguevarismo da bancarella.

Sono in molti quelli che hanno amato il gioco sarriano e l’epopea del triennio fondativo del calcio made in Napoli. Tenere tutto insieme: una città, un tipo di gioco, una cantera di campioni in erba, una tifoseria storicamente legata allo spettacolo offensivo e alle belle giocate. Nel Pantheon azzurro ci sono sempre stati i nomi di grandi attaccanti: Vinicio e il gioco totale, Savoldi  ‘o banco e Napule per quanto costò, l’ingrato Altafini, il dribbling spaziale di Sivori, Cavani il cannibale, Higuain magnifico perdente, Lavezzi Freccia Rossa, Insigne campione ‘casa e puteca’, Mertens detto Ciro, Hamsik Joystik da campo, su tutti l’Innominabile. La speranza era che il Napoli, potesse diventare come il Barça, l’Atletico, l’Ajax. Squadre che hanno un’identità di popolo e una durata nel tempo, indipendentemente dal valore altalenante dei giocatori e dei fatturati.

Il Dio Mercato

Non si era messo nel conto, però, l’ideologia “contro-rivoluzionaria”, come si sarebbe detto una volta, del globalismo commerciale, che un ex ministro delle finanze, Giulio Tremonti, stigmatizzò come “mercatismo”. Altro che calcio, sentimenti e nostalgia della maglia. E’ tutto sacrificato alle leggi del mercato. Basta la parola e voilà si cambia: allenatori, calciatori, sistemi di gioco. Passioni da tweet e chi se ne frega dell’appartenenza.

Per spiegare i “tradimenti” e le “bolle” di danaro che li accompagnano  occorre spingersi  fuori dal recinto calcistico e accettare, volente o nolente, il giocatore (e l’allenatore) globalizzato. Preceduto in pompa magna dal “padrone” cinese, americano, russo o saudita.

Non tutto il male, però, viene per nuocere. Il “tradimento” sgombra il campo dalle nostalgie. E il buon Ancelotti, che tutto è tranne che un capo popolo, può finalmente lavorare in pace senza salvare Napoli dai suoi guai.

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