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Il rap napoletano come il calcio di Sarri: chiamalo provinciale

Oggi è l’unico fenomeno culturale in grado di competere con la bellezza del gioco espresso dalla squadra. Un’identità bastarda che alle elites della città non interessa

Il rap napoletano come il calcio di Sarri: chiamalo provinciale
Enzo Dong

Internazionale su Enzo Dong

“Aviva veni’ cchiu’ ampress, so’ tre ore che so’ muort”. Verrebbe da dire col padre di Lello Arena in “No, grazie, il caffè mi rende nervoso”. Cercai di spiegare due anni fa su queste colonne il fenomeno di Enzo Dong, partendo dal rap su Higuain che aveva fatto insorgere le maestrine con la penna rossa, quelle che non sanno che ai cantastorie è consentito quasi tutto. Ora ci arriva anche Internazionale che riporta l’interpretazione autentica del rapper di Secondigliano (chissà come, noi ci eravamo già arrivati, le rime di Dong ci apparivano chiarissime): nessuno voleva davvero la morte del Pipita, il tema era il conflitto tra tradimento e realtà, aggiungiamo noi: in una città che non concepisce il tradimento – e in questo sembra essere fuori dallo stesso “occidente” – ma che vive da sempre di tradimenti, commistioni, meticciati. Meglio tardi che mai.

Il rap è, piaccia o meno, il linguaggio con cui i più giovani si sono sottratti al cono d’ombra proiettato dalle generazioni precedenti: una sorta di lingua nativa che però, inconsapevolmente il più delle volte, recupera molta tradizione, molto passato, e lo rivivifica.

Ed è indubbiamente più interessante confrontarsi con questi incastri di rime, per carpirne gocce di bellezza che a volte c’è – ed è pura – a volte no, che perder tempo a scoprire che c’è più verità in Don Matteo che nella fiction dorighezziana su De Andrè: dai diamanti non nasce niente, men che meno dalle mummificazioni, e se togli a Faber il Cantico dei drogati, la cattiveria, la poesia vera, la morte e lo riduci a icona politically correct, ne fai un affare anche poco attraente per chi ha voglia di futuro.

È racconto della vita

Oggi, anche a Napoli, una delle capitali del genere, il rap è racconto della vita a mezzo instantanee di chi ha meno di trent’anni, più di quanto non siano altri idiomi, relegati ormai alle elites di cinquanta-sessantenni o al pubblico generalista.

Il rap, e il trap, superano, assorbendolo in qualche misura, tutto quanto c’era prima, dalla canzone di mala al neomelodico.

Forse è oggi l’unico fenomeno in città, dal punto di vista culturale, davvero in grado di competere con la grande bellezza del calcio sarriano nel fare a meno delle letture dominanti della città, spostando in questo caso l’attenzione dalle narrazioni polarizzanti, esterne od interne (Ozpetek, Saviano), alla vita di ampli segmenti giovanili così come è davvero, rappresentata in versi, laddove il successo del sarrismo risiede, anche, nel rifiutare tout court il tema della chiave di lettura della città (distinguendosi in ciò dal rafaelismo) per puntare tutto sull’esempio, sul campo come risposta, anche sulla retorica del gioco e della bellezza, come è nella visione del provinciale laborioso che ritiene di dover dar linfa alla città unicamente per mezzo del suo lavoro, del fare (creando, però, comunque un immaginario).

“Le persone comuni sono più acute dei presunti intellettuali di oggi”

Giuliano Delli Paoli, giornalista e collaboratore della rivista Il Mucchio Selvaggio, concorda che una riflessione sulla provincializzazione di Napoli (e secondo alcuni del Napoli) debba tener conto anche di ciò che rema contro la provincializzazione, di ciò che è vivo e cattivo, di ciò che tra i più giovani, quelli che non sanno molto di Maradona, Troisi e Pino Daniele, coniuga identità e sintonia con il resto del mondo, se non avanguardia.

«C’è una narrazione ben precisa, non dissimile da quella del passato, che però non viene più vista e di conseguenza interpretata a dovere da determinate penne. È pura idiosincrasia generata dalla (de)crescita, dalla totale assenza di curiosità, da uno stallo critico verso le nuove leve, le nuove musiche e i fenomeni nascenti che disarma e che rischia di far diventare tutto questo qualcosa di ben diverso. Un boomerang spinto dalla miopia che diventa spocchia, da chiavi di lettura che tendono al giustizialismo spicciolo, di convenienza. E’ un po’ come ritrovarsi nel 1987 dinanzi a un genitore che teme che il proprio figlio si droghi mentre ascolta Vasco Rossi. Il livello è questo, solo che sono passati trent’anni e Vasco Rossi quelle stesse canzoni le fa cantare alle mamme incinte.

Ho fatto ricerche e ho parlato con alcuni di questi giovani rapper, stuzzicandoli sulla cosa. Giusto per far luce sull’equivoco messo in atto da queste derive giornalistiche bigotte. Abbiamo un patrimonio e lo stiamo sprecando nel nome di una logica conservatrice distante anni luce dalla cultura e dall’analisi profonda. Un dramma che però non tocca la rete, giovane, si, webeta, ma di certo non bacchettona. Mi verrebbe da citare Costanzo Preve quando dice che gli intellettuali hanno fallito, e fanno come il contadino che prima di morire uccide tutte le sue galline affinché nessuno possa mangiarle dopo la sua morte. Le persone comuni sono infinitamente più acute dei presunti intellettuali di oggi. Pasolini scendeva per le strade, interrogava, cercava di capire, questa linea di partenza non esisteva a prescindere. Come mai è successo tutto questo? Perché siamo caduti così in basso? Io lo chiamerei fallimento generazionale di una buona parte della critica più anzianotta. Chi dovrebbe raccontare finisce per rimanere nel proprio limbo, nella propria grotta.»

“Questi musicisti almeno mischiano le carte”

Salvatore Setola, collaboratore del sito Onda Rock, è di diverso avviso ma concorda su un punto:

«Per i miei gusti, queste nuove forme di narrazione musicale – che riconosco essere, più che appropriazione, rigenerazione locale di modelli internazionali – mi lasciano abbastanza freddo. Anzi diciamo che per me ascoltarli è sottrarre tempo ad altri ascolti più soddisfacenti. Ma perché io ho un rapporto mistico con la musica: se in essa non c’è qualcosa che mi eleva e mi affossa, non mi interessa ascoltarla. Tuttavia sono contento che esistano, anche se io non ci perdo tempo ad approfondirle, perché sono partecipi della vita culturale – intensissima ed eccitante – di un’intera città troppo spesso ridotta in modo manicheo o a macchietta gomorrista o a cartolina oleografica vergata da rivendicazioni neoborboniche.

Questi musicisti, almeno, mischiano le carte, attraversano i due estremi senza sostarci mai, non si limitano a guardare ma toccano, hanno le mani sporche, e soprattutto le lingue sporche. Fanno quello che faceva Caravaggio, in quegli stessi vicoli, ma con gli strumenti dei producer e dei beatmaker americani. Per dire, qualche tempo fa un amico mi fece ascoltare Vale Lambo e Le Scimmie, scandalizzato dai testi che secondo lui inneggiavano allo stile di vita camorristico.

Ecco, a me quelle canzoni così sinistre e prodotte coi controcoglioni, a parte riportarmi alla mente certe atmosfere postdubstep che avevo ascoltato in dischi esteri, mi parevano tutt’altro che una celebrazione. Quella è gente che racconta la propria vita, i posti in cui è cresciuta, quello che da sempre ha sotto gli occhi. Non ha bisogno di schierarsi, farci la morale sulla legalità. Come il primo Eminem, è al di là del bene e del male. E soprattutto questa è gente che riesce a parlare, con linguaggi musicali e anche visuali assolutamente moderni (e di qualità), allo stesso tipo di pubblico a cui venticinque anni fa parlavano i neomelodici (ma probabilmente, visto i codici musicali che utilizzano, anche ad altri pubblici non napoletani e, perché no, non italiani). Non sono il mio pane musicale, ma critici e cronisti musicali italiani dovrebbero stare più attenti a questi fermenti, invece preferiscono chiudersi nel loro conservatorio fatto di cimeli e amichetti indie rassicuranti.»

Ci si può proiettare nel mondo anche da provinciali

Non si sottovaluti l’accento posto dai due giornalisti su un tema, quello dei giovani e della lingua che hanno adottato per esprimere bisogni, desideri, ansie. Per raccontarsi. Un tema che si intreccia inevitabilmente, di nuovo, con quello della stagione calcistica che Napoli sta vivendo (stagione non nel senso del campionato di quest’anno ma nel senso di fase, con tutte le sue battute d’arresto, le sue variazioni sul tema, i suoi mutamenti, anche profondi). Perché l’originalità degli stili, che mescolano, ancora una volta, America e dimensione localissima, ci racconta come si possa essere “provinciali” (ci hanno ripetuto fino a sfracassarceli che siamo provincia dell’impero, no?) e proiettarsi nel mondo, affermare una propria identità bastarda. Il rap napoletano oggi viene vissuto da chi abita ad esempio a Milano come rap straniero, perché è un qualcosa che lì, ma anche a Roma e altrove in Italia, non potrebbe venir fuori con la stessa carica, il medesimo spleen, e c’entra solo in parte il discorso della lingua impiegata (dialetto, in realtà, ma poco conta), mentre c’entra la cultura, la vita vissuta.

L’attesa spasmodica di una città normale diviene allora un discorso per pochi elitari rinchiusi in una dimensione – quella si, davvero – provincialista, nella misura in cui un certo illuminismo non sa che farsene della trascendenza, della bellezza anche, ma nemmeno sa sprofondare nelle inquietudini della città, traducendosi al più in un laicismo senza anima, come un libro di Elena Ferrante.

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