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Enzo Dong, Higuain e il deprimente tentativo di addomesticare il rap

Il rap deve sparare, non è buonista. Non a caso, ha attecchito a Napoli, Roberto De Simone lo ha inserito nel suo ultimo libro.

Enzo Dong, Higuain e il deprimente tentativo di addomesticare il rap
Enzo Dong

Whats’ goin’ on? (Marvin Gaye)

Chi ha fatto ‘o sgarro, è pront’ pe sparà, chi vò ‘a vendetta ‘a sta facenne già… (Mario Merola)

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In principio era la parola. E la parola fu messa in rima. Dai cantastorie, dai poeti. Nelle strade, poi a corte, poi di nuovo nelle strade. Dai poeti girovaghi, poi da quelli laureati, sempre da quelli ubriachi. E la parola resiste soprattutto dove persiste il vizio dell’oralità. In Africa come nei ghetti d’America e nel mediterraneo.

Lo chiarì Roberto De Simone, prendendosela non poco con Eduardo, reo di aver assecondato se non proprio dato impulso ad una Napoli moralista, crociana, “sotto naftalina”: le culture tradizionali e popolari conservano quegli elementi orali che sono tutt’uno con la trasmissione della memoria e si contrappongono al libresco della cultura ufficiale che ora approda, anche nella crisi del libro e della lettura dei tempi dominati dalla rete, al linguaggio da dirigenti scolastici usato sui giornali.

Sarà per questo che nel suo ultimo “Satyricon a Napoli 1944”, il maestro, ancora una volta muovendo dai vicoli ed entrando come uno spiritello nelle case, sui ballatoi, negli anfratti, snobbando perciò il racconto di interni borghese ma andando per questo più a fondo negli “interiors” umani, ci ha messo un formidabile rap.

Perché in naturale, istintuale polemica con la “cultura”, più che con le istituzioni e la politica, di cui sempre più si fa a meno, ma prima ancora come bisogno comunicativo, urgenza, sfogo, il rap ha attecchito a Napoli come in pochi altri posti d’Italia, diventando una delle tre grandi capitali italiane del genere, con Milano e Roma.

E non c’è bisogno di dilungarsi in spiegazioni sociologiche, a partire da quella che inevitabilmente individua nelle periferie e nell’emarginazione la culla di un linguaggio crudo, esplicito, immediato, da oltre 30 anni il punk dei neri, prima quelli interi, poi anche quelli a metà. A Napoli la commistione prevede a volte il contaminarsi con le influenze etniche, con la mediterraneità, quindi con la melodia. Ma soprattutto una continuità con il neo ed il vetero melodico locale che ha consentito un’agevole ricezione di tematiche e testi non proprio in linea con il politicamente corretto, in un variegato mosaico che è mutato profondamente dagli esordi nei centri sociali, nel cuore della protesta studentesca della Pantera, e che tutt’ora cambia continuamente, come del resto altrove, senza fedeltà agli idoli (come invece nel rock, con i vari Springsteen, U2, Radiohead, Vasco) o ad altro che non sia la parola nuda, che spacca. Anche la malaparola, perché laddove la vita è cattiva, è mala vita, non può che dominare la mala parola. Che racconta la realtà, anche quella più sgradevole, come nella letteratura pasoliniana, nel cinema di Caligari, in “Gomorra”, il film, ma lontano anni luce dalla moralistica “narrazione del male” di un Saviano.

Piaccia o meno, è legge della “poesia cruda” (così la chiamano i Co’Sang: un nome, un programma), quella che narra il tempo presente dei giovani, perfino di quelli che hanno scelto di stare dentro il “sistema”, facendoli parlare, il che genera il classico equivoco politically correct di cui fu vittima per primo il grande autore americano Randy Newman, negli anni ’70, quando dileggiò i bassi di statura (“short people got no reason, short people got no reason, short people got non reason to live”) attirando le proteste delle associazioni e dell’establishment culturale – Newman rispose “se fai un film, la gente non pensa che il narratore sia tu, se scrivi un racconto neanche, ma se scrivi una canzone, sì”, perciò passava sistematicamente per ladro, razzista, omofobo, pornomane, assassino, ecc…

Proprio ciò che accade ora al povero Enzo Dong, ventiseienne rapper di Secondigliano che canta “Mi diverto solo se a morire è un Higuain”, dove Higuain è sinonimo di traditore. Come del resto è, ammettiamolo, per almeno mezza città. Dong fa parlare Napoli, quella che commenta i fatti di calcio fuori ai bar, nelle piazze, che sui social network ha augurato al Pipita la rottura dei legamenti crociati, perfino quella dell’intellettuale regista premio Oscar amato in mezzo mondo che ha tenuto una lectio magistralis sulla figura di Higuain-Giuda (ora, però, il suo attore, Silvio Orlando, sostiene che gli improperi ci sono tornati indietro via Milik).

Della difficoltà di una città e di una tifoseria ad accettare il tradimento ed elaborarlo abbiamo disquisito per settimane e chi scrive ritiene che il napoletano abbia vissuto tutto sommato con sufficiente ironia la vicenda, come sempre sa fare, naturalmente con le eccezioni del caso. Ma il discorso, per quanto riguarda il rapper, e il rap in genere, è un po’ diverso: il rap deve sparare. Pretendere che sia buonista, incline al dialogo, capace di darsi dei limiti, roba per ceti medi riflessivi, morale, è pazzia.

Inevitabile che a Napoli quella lingua si ponga in continuità con la tragedia della sceneggiata, con certi toni apocalittici. Negli Usa l’hardcore rap e il gangsta rap parlavano ossessivamente di frustrazione e rabbia, con solide radici nel mitizzare la strada del passato, nei monologhi improvvisati sulle gesta del boxeur Jack Johnson o di qualche altro eroe popolare a metà strada tra Al Capone e Robin Hood, ma aggiornando l’immaginario, le location, ed attingendo dunque dalle mitologie carcerarie, fornendo una valvola di sfogo all’esibizionismo sessuale maschile.

I tentativi di addomesticare il rap, di “sbiancarlo”, sono stati alquanto deprimenti, negli Usa come in Italia, sebbene da noi è, stranamente, nel grande banalizzatore della faccenda il messaggio più duro e lontano degli utopismi e dalle speranze delle precedenti generazioni proveniente dalla gioventù dei ’90, la prima qui da noi su cui l’hip hop ha davvero fatto presa: “Stiamo sopravvivendo, tenetene conto” (“Penso positivo”). Negli Usa il rapper Snoop Doggy Dog ha una vita da raccontare che è assai simile a quella di alcuni vecchi cantanti melodici di mala partenopei, ma con un surplus di mediaticità: accusato dell’omicidio di uno spacciatore con la complicità della sua bodyguard, ha avuto grande notorietà quando il processo che lo riguardava veniva teletrasmesso, un po’ come per Tyson o O.J. Sympson. La violenza è onnipresente nei suoi testi come in quelli di altri rapper (cito per non tediare solo Tupac Shakur, finito dentro per violenza sessuale). I rapper si difendono da sempre con quello che potremmo definire l’“argomento Snoop Doggy Dog”, per essere stato messo a punto da costui in maniera chiara e brutale: “Non vado in giro a dire “non drogatevi”, quando qualcuno lo ha fatto con me, ho fatto il contrario. Io racconto solo la verità, sono come un reporter”.

Naturalmente il rap qui da noi racconta anche altro, esprime vitalità anche di diverso genere, identitarismo meridionalista, perfino voglia di normalità, rigettando il maschilismo dei neri (“nelle mie canzoni la donna oggetto non la troverete mai perché chi tocca la mamma muore”, dice Clementino) ma la sua natura più vera resta nel racconto sporco, stradaiolo, usando le parole della gente, anche quelle rabbiose, comprese quindi le “jastemme”, piaccia o meno. Vogliamo processare i versi di Enzo Dong che da ad Higuain del traditore e chiede che lo si ammazzi? Ok, dobbiamo processare il rap. E forse prima ancora il blues. Il realismo (equivoco?) di mezza cultura popolare. Va bene, si può pure fare. Ciò che non si può fare è assimilare l’invettiva di Dong alle minacce di morte di un tifoso all’indirizzo di Montolivo, agli striscioni contro uno Strootman, all’ironia sul tentato suicidio di Pessotto. Varrebbe come pensare che Quentin Tarantino inciti alla violenza con le sue pellicole, Chuck Palahniuk con i suoi romanzi.

 

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