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L’imprevedibile bellezza del Napoli risolve la suspense “da cinema” del calcio

Un’analisi dell’evento-partita rispetto alla fruizione televisiva: il calcio come un film, i neuroni specchio e il Napoli come alternativa alla noia meccanica del gioco.

L’imprevedibile bellezza del Napoli risolve la suspense “da cinema” del calcio
Foto Ssc Napoli

L’indecisione e la scaramanzia

Lo confesso: sono un tifoso da divano e tv, e in più quando gioca il Napoli cerco di trovarmi qualcos’altro da fare. Mi prende l’ansia, e non riesco a stare fermo. Preferisco uscire, mettermi a cucinare – e ogni tanto sbirciare, salvo poi paralizzarmi teso come una corda di violino davanti allo schermo se stiamo per battere un rigore a favore, o c’è un corner contro di noi…

Me lo sono spiegato con la scaramanzia: “Quando vedo la partita il Napoli perde, o al massimo pareggia, anche contro le squadrette. Anzi, specialmente contro le squadrette…”. Ma poi, a ragionarci, non mi è bastata come spiegazione. Va bene scherzare, ma pretendo di essere un razionalista, un sociologo che si ispira alla fenomenologia: deve esserci qualcos’altro.

E allora ho capito – forse – da dove viene la mia ansia, la mia irrequietezza. Con il cuore sono sul campo, con il cervello so di essere altrove. E questa dislocazione mi destabilizza. Mi spiego meglio. Per chi va allo stadio, la partecipazione all’evento è differente: certo, non è in campo, ma è lì, nello stesso spazio e nello stesso tempo della partita. Può far sentire il suo incitamento, tifare contro gli avversari… insomma, è lì.

Un setting diverso

Per chi guarda la partita da casa, il setting, se mi si passa il termine, è completamente diverso: la mediazione dello schermo produce una compresenza e nello stesso tempo una assenza peculiari, specifiche, tipiche del funzionamento dei media audiovisivi – cinema, fumetto, televisione naturalmente.
Tempo fa scrissi che il calcio è forse lo sport più “telegenico” che c’è, per il rapporto fra il campo di gioco e le riprese, e perché la partita di calcio è l’evento sportivo che assomiglia di più al film, sia per la sua durata (quella “classica”, circa un’ora e mezzo divisa in due tempi), sia perché lo spettatore vive al presente le vicende che vi si sviluppano, “integrandosi nel testo”, come nei film, caratteristica che i film prendono a loro volta dal racconto fantastico, quello che più di tutti attrae il lettore in una dimensione altra, sospesa, fantasmatica, onirica (Abruzzese, 2007).

E questo, aggiungo, è ancor più vero oggi, perché i progressi delle tecnologie delle riprese, la moltiplicazione delle telecamere sul campo, la perizia dei registi e degli operatori permettono un “montaggio in diretta” impossibile anni fa, che avvicina sempre di più la narrazione dello spazio/tempo della partita a quella del racconto cinematografico – e delle serie tv più raffinate, collocando di fatto lo spettatore a casa dentro l’azione, con gli occhi a contatto del pallone, dei piedi, del corpo dei calciatori. Per non parlare dei replay, naturalmente, che pure contribuiscono alla costruzione di una rappresentazione spettacolare unica, originale.

Come il cinema

Questa condizione – che crea la grande differenza fra la partita vista televisione e quella vista sugli spalti dello stadio – proietta lo spettatore televisivo in un universo altro, quello del cinema, che è vero, e nello stesso tempo non è vero, come il sogno (Albano, 1992). E, quando sogniamo, noi partecipiamo agli eventi che si svolgono, ma nello stesso tempo li subiamo, siamo spettatori inermi, anche se coinvolti direttamente…

Quindi, a vedere la partita in televisione, siamo dentro, in campo, ma consapevoli di esserne esclusi, solo spettatori impotenti. Ma perché succede questo? È solo un fatto di partecipazione emotiva, affettiva, di tifo, insomma? O c’è dell’altro?

Qui mi viene in aiuto un nuovo settore di ricerca, quello delle neuroscienze, che studiano il modo con cui funziona la nostra percezione fisica della realtà esterna, quella in cui siamo immersi quotidianamente, e in particolare i rapporti che legano la percezione visiva e la lavorazione che il cervello fa degli stimoli che provengono dall’occhio – e che non a caso è stata applicata al modo in cui vediamo i film, con risultati estremamente significativi per spiegare il modo in cui il montaggio cinematografico produce effetti come la sorpresa e la suspense (Gallese – Guerra, 2015; Pecchinenda, 2017).
Da quello che ho capito, e cercando di non fare confusione, le cose stanno così.

Perché siamo attratti dal movimento

Prima di tutto, noi umani, come i rettili, i gatti e altri animali, siamo attratti dal movimento, e lo seguiamo. Questa abitudine ci conduce a costruire nella nostra memoria dei “magazzini” di sequenze di gesti, movimenti, spostamenti, cui ricorriamo quando vediamo qualcosa muoversi, e che ci permette di anticipare, di prevedere i movimenti successivi di ciò che si sta muovendo davanti ai nostri occhi, riempiendo i vuoti della nostra percezione, ad esempio quando l’oggetto in movimento scompare dietro qualcosa per poi riapparire: in pratica, “intuiamo” il movimento che non riusciamo a vedere, e anticipiamo il movimento che seguirà.

Questo avviene grazie ai cosiddetti “neuroni-specchio”, che ci fanno “partecipare”, specchiandoci nell’azione, al movimento che vediamo, come se lo stessimo eseguendo noi. Il seguito del discorso vale – devo avvertire – in particolare per chi ha giocato a pallone, anche sotto casa, anche con una palla di stracci, e che quindi ha esperienza del dispositivo mobile fatto di campo-pallone-io-avversari-compagni. Che insomma può identificarsi con quello che avviene davanti ai suoi occhi.

Torniamo sul campo. Anzi, sulla nostra poltrona davanti al televisore, mentre vediamo la partita: seguiamo le azioni, come se le vivessimo, anche se non è vero. Avendo esperienza del gioco, sappiamo cosa aspettarci. Avendo esperienza del gioco della nostra squadra abbiamo ormai imparato come gioca, gli schemi, le azioni, i virtuosismi, le debolezze. I nostri neuroni-specchio fanno il loro lavoro: siamo lì ad assistere, a partecipare, se è la nostra squadra; aspettiamo, prevediamo, immaginiamo quello che avverrà un attimo dopo: il lancio, l’assist, il cross, il tackle, il dribbling…

E, quando l’azione si interrompe, soffriamo. Non solo perché abbiamo perso palla, ma perché quello che è successo non corrisponde ai nostri schemi mentali, a quello che abbiamo incamerato in memoria e che quindi ci aspettiamo, a quello che doveva necessariamente accadere: si crea una dissonanza fra le nostre aspettative e quello che avviene nella realtà. Meglio non guardare, pensare ad altro, e soffrire nell’attesa del risultato finale…

L’imprevedibilità che risolve la suspense

Però, fortunatamente, c’è qualcosa che ci ripaga della nostra sofferenza, e che ce lo regalano poche squadre, in questo momento: il Manchester City, forse ancora il Barcellona… sicuramente il Napoli. Il guizzo imprevisto, la giocata da fuoriclasse, la scelta imprevedibile, che si aggiungono alla bellezza quasi “musicale” delle trame di gioco. Quel gesto atletico imprevedibile, geniale, che “libera l’uomo” perché vada in rete aggiungendo qualcosa di ancora non visto al repertorio e alla memoria collettiva del calcio giocato.

Quella che nel film è la sorpresa, che risolve la suspense che ci attanaglia durante l’azione e che nel calcio esplode quando il pallone entra in rete e ci permette di liberare la nostra emozione. Succede, col Napoli di questi anni. Forse per questo le partite degli altri a volte annoiano: non succede mai niente di nuovo, è tutto già visto. Puoi solo sperare in qualche polemica o nello scatto isterico di un allenatore. Il resto è noia, grigia noia, il non colore che viene fuori dalla combinazione di bianco e nero.

Bibliografia
Alberto Abruzzese, La grande scimmia, Luca Sossella, Roma, 2007.
Lucilla Albano, La caverna dei giganti, Pratiche, Parma, 1992.
Vittorio Gallese – Michele Guerra, Lo schermo empatico, Raffaello Cortina, Milano, 2015.
Gianfranco Pecchinenda, L’essere e l’io, Meltemi, Milano, 2017.

 

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