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Al New Yorker lavorano in venti per evitare le fake news, in Italia c’è la polizia

Leggere l’intervista al capo della squadra di fact-checker del New Yorker e ritrovarsi in Italia col giornalismo finito in mano al ministero dell’Interno

Al New Yorker lavorano in venti per evitare le fake news, in Italia c’è la polizia

Lo chiamano red button

“È vero, l’ha detto la Polizia”. Che alla tv, ormai, chi ci crede più. Perché siamo in piena psicosi da “fake news”, e lo Stato, di balle che rimbalzano a destra e manca, soprattutto in campagna elettorale, non ne può più. Quindi, da oggi, il cittadino (anzi, no: “cittadino” ormai suona di parte… facciamo la casalinga di Voghera?) può andare sul sito della Polizia Postale (https://www.commissariatodips.it/collabora/segnala-una-fake-news.html) e segnalare la presunta bufala. Poi – ci informa il Protocollo operativo diffuso dal Ministero dell’Interno – “un team dedicato di esperti del Cnaipic in tempo reale, 24 ore su 24, effettuerà approfondite analisi (…) al fine di individuare la presenza di significativi indicatori che permettano di qualificare, con la massima certezza consentita, la notizia come fake news”.

Urgeva – secondo il Ministero – “la necessità di arginare, in periodo di campagna elettorale, l’operato di quanti, al solo scopo di condizionare l’opinione pubblica e orientarne le scelte, elaborano e rendono virali notizie destituite di ogni fondamento”.

Il “red button” – sì, lo chiamano proprio così – è già online. E a occhio la suddetta casalinga di Voghera lo sta premendo convulsamente da ore, visto che la campagna elettorale è il paradiso “di quanti al solo scopo di condizionare l’opinione pubblica e orientarne le scelte, elaborano e rendono virali notizie destituite di ogni fondamento”. Se funzionasse, qui dove una volta era tutta campagna (elettorale), rotolerebbero solo covoni di paglia nel silenzio generale. Una sobrietà che purtroppo è distopia pura.

Fa molta tenerezza il destino di questo manipolo di esperti del Cnaipic (che sta per Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche…), catapultati “in tempo reale” con turnazione 24h in un marasma di segnalazioni, che possono riguardare un servizio giornalistico, una fandonia che gira su Facebook, quanto l’ennesima dichiarazione sopra le righe del candidato di turno.

Il fact-cheking al New Yorker

E ci riporta alla mente l’istruttiva intervista pubblicata su Rivista Studio a Peter Canby, il capo della squadra di fact-checker del New Yorker. Avete capito bene: “la squadra”. Il New Yorker non a caso è una delle testate più rispettate al mondo: ha uno staff di 20 professionisti che si occupa solo di verificare fino alla nausea – prima della pubblicazione, e non a cose fatte – ogni pezzo pronto per andare in stampa. Fregandosene della corsa allo scoop, visto che “in genere il fact-checking di un articolo lungo per il cartaceo richiede circa una settimana, anche se ultimamente stiamo cercando di velocizzarci un po’”.

I passaggi, spiega Canby, sono questi: “Ci arriva il manoscritto, lo leggiamo, poi lo rileggiamo al contrario. Chiamiamo gli editor, poi l’autore, o gli scriviamo, anzi, se è uno staff writer, andiamo fisicamente da lui: gli chiediamo i contatti delle sue fonti, gli appunti, copie dei libri che cita, i link, eccetera. Controlliamo i nomi e le date. Una delle parti più importanti consiste nel verificare la struttura logica del pezzo: c’è qualcuno che argomenta qualcosa in base a dei fatti, e noi cerchiamo di leggere la sua argomentazione in modo critico. In pratica prendiamo un articolo, lo facciamo a pezzi, e poi proviamo a rimettere i pezzi insieme”.

Ma che lingua parla questo Canby? Da che pianeta arriva? Chiunque abbia bazzicato una redazione italiana sa che, nel migliore dei casi, il processo di verifica di una notizia non arriva mai a questo livello di meticolosità. Qui da noi le cose funzionano in tutt’altra maniera. E la fantasiosa “lotta alle fake news” ne è l’ennesima prova. Siamo riusciti a ribaltarne pure il concetto: le fake news in Italia sono diventate… una fake news. Le abbiamo usate cioè come fumo negli occhi, montando il fenomeno fino a distorcerne spesso il senso, derubricandolo ad argomento da bar, e finendo per svilirlo nel peggior modo possibile: ora basta, ci pensa la polizia.

Il reato di bufala ancora non esiste

Il ministero dell’Interno delega alle forze dell’ordine il compito di stabilire cosa è vero e cosa è falso. Le forze della verità, tra l’altro, devono deliberare in un contesto normativo in cui non esiste il reato di “bufala”. Esiste quello di diffamazione, ma sono i giudici a pronunciarsi, non certo la polizia.

Questa bislacca soluzione è perfettamente aderente alla percezione di un problema che la dice lunga sullo stato dell’informazione in Italia. Altrove, democrazie con ben altri problemi trattano le fesserie dei falsari del web per ciò che sono: mezzucci di distrazione di massa, perfette per un Paese in cui il messaggio politico è mediocre e ondivago. Diventano alibi solo se gliene dai dignità. Altrove non c’è bisogno di scomodare speciali reparti della polizia. Basta che ognuno faccia, bene, il suo lavoro.

Il fact-checking – dice Canby – è estremamente costoso. Però è una parte centrale del nostro processo editoriale e, sì, ne vale la pena, perché ci aiuta a costruirci una reputazione di affidabilità”. “Reputazione”… “affidabilità”… Ma che lingua parla questo Canby?

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