Differenze culturali e di infrastrutture non permettono all’Italia di ripetere il modello inglese (o francese). Tutto giusto, ma solo economicamente: lo spirito e la percezione del gioco ne risentono.
Due piani di lettura
Il cervellone condiviso della nostra redazione ha partorito questo pezzo dopo una discussione su Manchester City-Bristol City 2-1. Ieri sera, Guardiola ha vinto ancora. Contro la quarta classificata del Championship, contro una squadra ordinata e messa in campo secondo criteri logici, lineari, equilibrati. Contro una squadra che, tra l’altro, ha già eliminato il Manchester United da questa competizione. Quindi, come dire: vetrina e risultato (ancora in bilico) meritati.
Ci siamo chiesti: perché in Italia queste cose non succedono? Cioè sì, abbiamo avuto l’Alessandria 2016 e oggi abbiamo l’Atalanta. Ma tutto è “tenuto a bada” da un regolamento che rende episodi che queste esperienze, si tratta di veri e propri exploit singoli. Noi a Napoli ricordiamo il Siena 2012, sempre in semifinale. Quando invece l’Inghilterra, nelle sue due coppe nazionali (anche questo fa la differenza, certo), ha visto approdare in finale Swansea City, Bradford, Sunderland, Southampton, Crystal Palace, Aston Villa, Hull City e Wigan. Questo, solo negli ultimi cinque anni.
C’è una differenza, netta, tra l’Inghilterra e il resto dell’Europa. Il Regno Unito ha i tabelloni migliori per coltivare certe favole. Perché pure in Spagna, ad esempio, non si va oltre le tre big, l’Alaves, l’Athletic Bilbao e il Siviglia (in finale) negli ultimi otto anni. Diciamo che ci sono una cultura diversa delle “altre” competizioni, e anche i tabelloni migliori per coltivare certe favole. La Francia, invece, è simile agli inglesi: la Coppa di Francia ricorda l’incredibile exploit del Calais 2000, in Coppa di Francia, “doppiato” dal Quevilly nel 2012. E il Guingamp ha vinto il trofeo appena tre anni fa.
Quindi, torniamo all’Italia. E alla nostra piccola Tim Cup (ragioni di sponsor). Qual è il suo stato di salute? Si dice che faccia schifo, si dice che è in ripresa. Noi pensiamo che i piani di giudizio siano due, totalmente opposti ma comunque inscindibili per una valutazione finale. Dal punto di vista economico, la Coppa Italia può funzionare solo così. Dal punto di vista del romanticismo calcistico, però, non ci siamo: questa formula toglie spazio alle favole.
Business
Il punto di vista “economico”, o meramente economico, è tutto condensato in questo post di Giovanni Armanini, coordinatore del sito Calcio&Finanza. Che spiega come il modello inglese non sia importabile nel nostro Paese, per questioni di cultura, calendario e stadi. Spiega anche che la formula “televisiva” attuale ha valorizzato il prodotto in termini di audience, che poi stringi stringi è l’unica cosa che conta. Anzi, è ciò che fa la differenza tra un modello funzionale e funzionante e uno per cui non è possibile utilizzare certi aggettivi. Non è un caso che la FA Cup e la League Cup vadano in televisione su Sky mentre la Coppa Italia faccia fatica ad uscire dallo steccato della Rai.
Insomma, nel testo di cui sopra c’è un riferimento al Napoli (e alla sua scelta di privilegiare solo il campionato) che chiarisce quale sia la distanza di partenza. Intorno a questo concetto, c’è tutta una spiegazione rispetto all’inevitabile modernità calcistica verso cui tendiamo. Alla fine, sopra abbiamo raccolto i nomi dei club arrivati in finale nell’ultimo quinquennio di Fa Cup e League Cup. Mentre questi, invece, sono i nomi dei club che hanno alzato la coppa: Wigan, Manchester United, Arsenal, Manchester City, Chelsea, Swansea. Insomma, favole fino a un certo punto. Fino all’albo d’oro, qualche volta oltre.
Romanticismo
Prima della finale, però, c’è il percorso. Ed è l’altro piano di lettura, che un po’ “corregge” e “annacqua” quello precedente. È bello, anzi sarebbe bello pensare che l’Atalanta possa vincere quest’anno. Non perché affronti la Juventus, ma per poter affermare e legittimare il suo grande lavoro con un trofeo riconosciuto. Prima del dominio dei bianconeri, la Coppa Italia è stata vinta dal Napoli, dalla Lazio, dall’Inter, dalla Roma, dal Milan e dal Parma. Sì, siamo arrivati al 2002 e non abbiamo saltato un’edizione: 2014 e 2012 (Napoli), 2013, 2009 e 2004 (Lazio), 2011, 2010, 2006, 2005 (Inter), 2008 e 2007 (Roma), 2003 (Milan). In questi anni, poche finaliste oltre questo circolo ristretto: Fiorentina (2014), Sampdoria (2009) Palermo (2011). Stop, basta così.
Non che non sia meritocratico, parliamo comunque delle squadre più forti, ma di certo manca un certo gusto per l’inatteso. Il Palermo 2011, per esempio, colpì la fantasia di tutti per l’invasione “rosa” di Roma. È stato un evento, e il discorso è proprio questo: la formula della Coppa Italia sarà anche redditizia (dai quarti in poi, quando entrano in campo le big), ma non agevola in nessun modo la possibilità di un exploit. Di un exploit che si compia, si concretizzi in maniera assoluta.
Formula
Le partite in casa delle grandi, solo in casa delle grandi, per esempio. Se le partite dei primi turni si giocassero negli altri stadi di Serie A (non tanto Napoli-Atalanta, il San Paolo è stato scelto per sorteggio, quanto Napoli-Udinese), gli allenatori sarebbero tentati di fare meno turn over? Forse sì, o forse no. Di certo non parliamo dello stadio del Pordenone, ma di un potenziale incentivo all’evento positivo per il Cagliari, il Sassuolo, il Torino. Avrebbero possibilità maggiori, già in partenza.
Il nostro discorso è ammantato di retorica e romanticismo, lo sappiamo. Però preserva una parte della natura competitiva del gioco. Non siamo nostalgici acritici, sappiamo che i parametri che regolano il gioco sono quelli di sopra, non certo questi. Ma finali come quella del 1979 (Juventus-Palermo), o anche solo come Vicenza-Napoli del 1997 rendono caldo il nostro ricordo della Coppa Italia. Fanno la differenza. E se proprio non vogliamo cambiare la finale di Roma (che potrebbe essere itinerante ma va bene uguale, è un marchio riconoscibile), proviamo a modificare qualcosa nel percorso fino all’ultimo atto. Soprattutto per chi vuole credere ancora in un certo calcio, contro tutte le evidenze della realtà.