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Don Riboldi il vescovo che sfidò la camorra e che ha avuto pochi compagni di viaggio

Il ricordo del vescovo morto a 94 anni. Il suo arrivo ad Acerra, sfidò i camorristi nella loro terra a partire da Raffaele Cutolo

Don Riboldi il vescovo che sfidò la camorra e che ha avuto pochi compagni di viaggio
foto de L'Unità, tratta dalla pagina fb di Antonio Bassolino

La prima grande marcia anticamorra

C’è una fotografia di trentacinque anni fa che più di ogni encomio rende onore ad Antonio Riboldi, un brianzolo di Triuggio fattosi prete votato a lavorare per gli altri e calato al sud dove il suo esempio e il suo coraggio hanno lasciato un segno indelebile. Che la morte, speriamo, non cancellerà.

L’immagine è sbiadita ma “racconta” la prima grande marcia anticamorra che Riboldi organizzò per andare a sfidare Raffaele Cutolo ad Ottaviano, nella sua tana, dove si considerava al di sopra di ogni aggressione e poteva esibire la sua smania di potere e la sua ferocia. La fotografia è un documento politico di notevole valore anche perché consente di fare un raffronto con il degrado morale e ambientale nel quale i nostri territori sono immersi.

In primo piano, in testa al corteo affollatissimo di uomini e donne, ci sono tre personaggi di grande presa carismatica, ognuno rappresentante di un “valore” che nel marasma in cui annaspiamo si stenta a ritrovare: Antonio Riboldi in rappresentanza della chiesa locale che ha sempre avuto molti “peccati” da farsi perdonare; Luciano Lama leader vero di un sindacato oggi dilaniato dalle rivalità interne; e, infine, un giovane Antonio Bassolino con il piglio di chi sa quali sono i “doveri” di un politico in carriera. Anche oggi li conosce,  ma è sempre più isolato.

È morto a Stresa

Torniamo alle cronache di questi giorni. Il vescovo emerito di Acerra è morto a Stresa, sul lago dove ha sede un convento dei padri rosminiani. Lì visse gli anni del primo impatto con il sacerdozio. Aveva 94 anni, ma fino all’ultimo respiro è stato un testimone attivo e financo arrabbiato perché, come mi disse, «nel nostro paese quando esci dal giro sei considerato peggio di uno straccio».

L’ultima intervista me la concesse tre anni fa ospitandomi nell’appartamentino a lui destinato nella mansarda che sovrasta, all’interno della Curia di Acerra, il complesso dell’Umana Accoglienza che grazie alla sua tenacia di vescovo al quale non possono tappare la bocca aveva trasformato da dormitorio in un Centro che ospita studenti di tutto il mondo inaugurando un percorso che, purtroppo, è rimasto isolato.

Ha trovato pochi compagni di viaggio

Riboldi, infatti, ha trovato sulla sua strada pochi compagni di viaggio: era considerato un personaggio scomodo e perfino ribelle, ma lui ha avuto la forza di tirare sempre diritto andando spesso controcorrente. Una vita perennemente in frontiera, dal Belice ad Acerra passando per l’esperienza vissuta nelle carceri doveva si recava ad incontrare i terroristi politici. Lo slogan che scelse aiuta a capire: «bisogna colpire i veri colpevoli del sacco del territorio, non si risolve niente, diceva, mandando all’attacco le madri che hanno un figlio ammalato di tumore».
Il riferimento alle (false) crociate della Terra dei Fuochi è evidente: Riboldi non ha mai staccato la spina del suo impegno. E per questo ha collezionato più nemici che amici. Lo dimostrò accettando di incontrare Raffaele Cutolo che aveva espresso il desiderio di confessarsi. «Era il giorno di Pasqua, parlammo per un’ora e alla fine gli dissi signor Cutolo per me lei è un signor nessuno».

Il pentimento di Carusiello

Per congedarci da lui però, scelgo un altro episodio, meno importante forse ma più rivelatore della forza di questo personaggio che non ebbe paura di affrontare i boss costringendoli a fare un passo indietro. Lasciamo la parola a lui e poi salutiamolo sperando che almeno post mortem tutti si schiereranno con il Vescovo che ha sempre chiesto di essere sepolto nella cattedrale di Acerra, la “sua” cattedrale. Ed ora ecco la sua straordinaria testimonianza.
«Quando Paolo VI, con il quale avevo uno splendido rapporto, mi mandò qui trovai un paese soggiogato dalla criminalità e una chiesa quasi assente perché da dodici anni non c’era il parroco. Mi vidi perduto ma qualcosa dovevo fare e allora cominciai a urlare alla mia maniera in modo che mi sentissero anche loro, i boss che ordinavano di ammazzare restandosene nascosti. E, infatti, uno mi ascoltò, proprio il peggiore, Salvatore Cantiello, che seminava il terrore facendosi chiamare Carusiello. Una domenica mattina, nonostante fosse il latitante più ricercato, venne in parrocchia e mi sfidò. Lo tenni tre ore, gli ordinai di pentirsi in nome di Dio e lui lo fece e proprio per questo venne ammazzato. Quella volta corsi il rischio di essere incriminato per favoreggiamento, ma ne valse la pena perché dimostrai agli acerrani che la violenza non si subisce ma si combatte con il comportamento, è difficile lo so ma bisogna tentare». Pochi, però, hanno fatto tesoro di quella lezione.
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