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Gibotta il napoletano che ha vinto il World Press Photo con un reportage sulla guerra d’amore

«La fotografia è un dono, documentare l’Unitalsi mi ha cambiato», dice in un’intervista al Napolista. In Spagna è un eroe, ha vinto documentando la battaglia di Ibi

Gibotta il napoletano che ha vinto il World Press Photo con un reportage sulla guerra d’amore

Ogni anno, il 28 dicembre, a Ibi, Spagna, in provincia di Alicante, si combatte una guerra a suon di farina, acqua, uova e fumogeni colorati. Da un lato una parte della popolazione, gli Infarinati, che simula un colpo di Stato, dall’altra la restante porzione degli abitanti, che tenta di riportare l’ordine. I due schieramenti si fronteggiano dalle 8 del mattino, per un’intera giornata, da oltre 200 anni.

In pochissimi conoscevano l’esistenza di questa particolarissima guerra fino ad oggi: le immagini che la descrivono hanno fatto il giro del mondo dopo che il fotografo che le ha scattate ha vinto il secondo premio del World Press Photo, nella sezione Storie.

Lui è Antonio Gibotta, classe 1988, nato ad Avellino ma a soli tre giorni trapiantato a Napoli: «sono napoletano», ci tiene a specificare. È a sua volta figlio di un fotografo professionista ed è proprio grazie al padre che si appassiona sin da piccolo alla fotografia che trasforma presto in professione. Antonio è un fotografo di matrimoni, specializzato però in reportage di viaggi: Arabia Saudita, Africa, Vietnam, India, Laos, Serbia, tutta l’Europa, sono tantissimi i luoghi che ha visitato e ritratto nei suoi scatti. Collabora con l’Agenzia Controluce e ha, come dichiara lui stesso, «un’insaziabile curiosità per le culture e i popoli diversi dal mio».

 

Nel servizio sugli Infarinati hai descritto una vera e propria guerra, anche se sui generis. Come è nata l’idea di fotografarla?

«Mi occupo spesso di quello che c’è dopo la guerra, ho documentato la rotta balcanica, la questione dei migranti: per una volta volevo raccontare una guerra d’amore, in cui, alla fine, non ci sono morti. Quando finisce la battaglia degli Infarinati le due fazioni si fanno una foto di gruppo e si abbracciano, cosa che nelle guerre vere non accade mai. Ci dovrebbero essere più guerre di questo tipo, come esempio».

 

Conoscevi già questa battaglia?  

«No, ci sono andato ed è stata tutta un’avventura. Considera che ho scattato tutte le foto senza vedere nel mirino: avevo le macchine chiuse in un cellophane di quattro, cinque strati. Non vedevo praticamente niente: la sfida più difficile è stata questa».

Prima di andare a Ibi ti eri documentato?

«Avevo letto quel poco che c’era. Vedi, di solito prima di affrontare un reportage ti documenti, però non sempre trovi quello che leggi o viceversa: è un’arma a doppio taglio. Devi andare preparato, certo, però devi sempre vedere cosa trovi dall’altra parte. Io non pensavo di documentare gli Infarinati senza vedere, per esempio, però mi sono trovato costretto in quella situazione e l’ho dovuto fare per forza».

 

Che altri accorgimenti hai usato per scattare quelle foto?

«Ho protetto le macchine con strati di cellophane, buste antipioggia e tutti i tipi di scotch per non farci entrare farina e uova. Avevo una mascherina di quelle che si mettono quando vai a sciare, con gli occhialoni enormi ed un’altra per respirare».

Come partire per una guerra…

«Bravissima. Il bello è stato proprio questo. Il messaggio che è arrivato al mondo intero è che esiste una guerra d’amore. E poi, quando finisce questa guerra, gli abitanti che vi hanno partecipato vanno in giro per il paese a multare le attività commerciali e quello che raccolgono lo danno in beneficenza. C’è uno scopo benefico nella battaglia…».

 

Quanto tempo sei stato a Ibi?

«Quattro giorni. La festa è durata un solo giorno, il 28 dicembre. Ci è voluto un po’ per raggiungere il posto. Non c’è un volo diretto. Prima Napoli-Madrid, poi Madrid-Alicante, poi ho proseguito in taxi».

L’idea di questo reportage è stata tua o dell’Agenzia Controluce?

«Come tutti i miei reportage, ho proposto io anche questo. All’Agenzia è piaciuta subito l’idea, e molto».

In un’intervista a La Stampa hai dichiarato: “Sono un fotografo di matrimoni che ce l’ha fatta.  

«Assolutamente. Ho iniziato così e faccio ancora quello. Oggi con il fotogiornalismo non si può vivere. Io vivo grazie ai matrimoni, grazie a quelli giro per il mondo a documentare le storie che ho raccontato finora. Prima di oggi, non esisteva un fotografo di matrimoni che avesse vinto il World Press Photo, ed è ancora più bello: c’è la soddisfazione per me, certo, ma anche per la categoria. Si dice sempre che il fotografo di matrimoni è l’ultimo: in questo caso non è stato così».

 

Per te che cos’è la fotografia?

«È la mia voce. Uso la fotografia per esprimere quello che voglio dire e raccontare. Anzi, è meglio della voce: non amo molto parlare, sono sempre stato piuttosto taciturno».

Le tue foto raccontano soprattutto emozioni. Le cerchi o le trovi lungo il cammino?

«Le vai a cercare, certo. Più ti avvicini e più ci entri dentro. È questo il bello. Se vuoi far emergere un dettaglio devi essere vicino, starci dentro, stare con loro. Potevo anche riprendere la battaglia degli Infarinati da dietro le transenne col 300, come hanno fatto parecchi, ma non è questo il sistema. Ho fatto sempre così, anche negli altri miei progetti. Gli Infarinati mi hanno fatto vincere il premio, ma dietro c’è tanta roba, non è che ci sono arrivato così, all’improvviso».

Per starci dentro, come dici tu, devi essere anche un po’ invisibile. Come ci riesci?

«Lo diventi. È un po’ complicato, ma riesci ad essere invisibile con la discrezione, non dando nell’occhio. E poi le cose capitano. Prima di partire per il reportage in India lessi che alle donne era assolutamente vietato presenziare alle cerimonie di cremazione, non mi aspettavo di trovare una cremazione piena di donne, eppure mi è successo. Nessuno è riuscito a fotografarle, io sì. Ecco perché dicevo che è importante documentarsi prima di partire, certo, ma poi a volte trovi tante altre cose che non pensavi di poter trovare».

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Sembra quasi una sorta di magia. Come un dono…

«Sì, il signore mi ha fatto questo dono. Lo ringrazio ogni giorno, la mattina e la sera».

Qual è la foto che preferisci tra quelle che hai scattato finora?

«Non vado mai a foto, ma a storie e progetti. Il progetto che più mi ha segnato è stato documentare l’Unitalsi. Sono stato due anni con loro, ho seguito i viaggi che facevano con il treno bianco dei bambini e il nazionale e hanno cambiato completamente il mio modo di vedere la vita, la scala dei valori. I beni materiali sono andati a finire all’ultimo posto ed è emerso il lato umano. La fotografia serve anche a questo: a cercare di trasmettere sensazioni che non sempre arrivano agli altri, ma che il 70% delle volte vengono capite».

Qual è la foto che vorresti scattare e ancora non hai scattato?

«Non ne ho, per il momento. Ho dei progetti ma sto attendendo un po’ prima di andare a cercare qualcosa. È una cosa che devi ricevere. Chi vivrà vedrà».

Quanto ti ha cambiato vincere questo premio?

«Non saprei. Il bello del vincere un World Press Photo è che hai all’improvviso una vetrina sul mondo. Fai vedere la tua fotografia dopo che per tanti anni hai cercato di far vedere e capire al mondo che esistono tante cose e prima di vincere non ci sei mai riuscito».

Prima di questo hai ricevuto moltissimi premi, sono tutti nella sezione Awards del tuo sito… 

«Sì. Questo è stato il più importante e il più bello. Quello che mi ha dato una visibilità tremenda e che ha fatto emergere tutto quello che ho fatto. Il mondo intero ha visto: è pazzesco. La Spagna, poi, è letteralmente impazzita, peggio di me. Vogliono che vada là a ritirare un premio per la città di Ibi, vogliono organizzare delle mostre per strada…».

Ci tornerai quest’anno?

«Quest’anno no. Forse l’anno prossimo. Ho altro da fare. E poi voglio mettermi in stand by per un po’. Come il vino, voglio far decantare questo momento» (sorride, ndr).

Le foto sono tratte dal sito di Antonio Gibotta.

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