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Bruno Giordano racconta il suo provino alla Lazio con gli scarpini rotti

È in uscita la biografia del centravanti trasteverino della Lazio e del Napoli, scritta da Giancarlo Governi. Tanti gli episodi gustosi, ne abbiamo scelto uno

Bruno Giordano racconta il suo provino alla Lazio con gli scarpini rotti
La copertina del libro di Bruno Giordano

Dal 5 ottobre sarà in libreria “Bruno Giordano, una vita sulle montagne russe”, di Giancarlo Governi, Fazi editore. Biografia del centravanti della Lazio e del Napoli, raccontata in prima persona con la prefazione di Edoardo Albinati. Giordano racconta anche del Napoli e di Maradona, ovviamente. Ma abbiamo trovato meraviglioso il racconto del suo provino con la Lazio. Testimonianza di un’epoca davvero remota.

Don Pizzi e il Don Orione

Io andavo ancora a scuola, giocavo a calcio per passione e, nell’incoscienza dei miei tredici anni, quasi non osavo pensare che quella che era la mia passione sarebbe diventata un giorno il mio lavoro, la mia professione. Anzi, quelle rare volte che mi capitava di pensare al mio avvenire, mi vedevo tappezziere come mio padre. Insomma un giorno Toto, che non aveva smesso di frequentare don Pizzi e il Don Orione, portò un osservatore della Lazio di cui ignoro il nome e che non ho mai conosciuto; a me dissero soltanto che c’era, a veder giocare la mia squadra.

Alla fine della partita dettero tre nomi a don Pizzi: il mio e quello di due miei compagni di squadra, Galgani e Modesto. Eravamo convocati per un provino a Tor di Quinto, al campo della Lazio. Toto ci disse: «Mi raccomando portate gli scarpini con i tacchetti, perché lì c’è il campo d’erba, un campo vero, e voi siete abituati a giocare in campacci». Capirai, chi ce l’aveva i mitici scarpini di calcio che a quell’epoca costavano cifre che famiglie modeste come la mia non si potevano permettere.

Camminavo in casa con gli scarpini

Allora le cose erano molto diverse da oggi che i ragazzini si presentano alle scuole calcio forniti delle marche più prestigiose, che vedono in televisione calzate dai giocatori di serie A, che ne sfoggiano di tutti i colori, talvolta addirittura con i colori spaiati. Gli scarpini di oggi sono un guanto per i piedi, calzano perfettamente e non danno alcun fastidio. Gli scarpini di allora erano un problema per tutti, perché i tacchetti erano inchiodati alla suola e spesso le punte dei chiodini venivano a contatto con il piede ed erano dolori. Quando poi erano nuovi facevano male ai piedi che si riempivano di vesciche. Lo scarpino diventava buono quando era diventato vecchio e si era adattato al tuo piede. Praticamente quando era arrivato il momento di buttarlo.

I giocatori importanti della prima squadra davano i loro scarpini, direi a domare, ai ragazzi delle giovanili. Anche a me fu affidato il compito di sformare gli scarpini dei giocatori della prima squadra. Quando toccò a me non feci altrettanto, i miei scarpini li domavo da me. Lo facevo prima dell’inizio della stagione e poi li portavo per un anno intero. Li portavo sempre con me e per adattarli meglio ai miei piedi li calzavo anche per casa, mentre giravo in pigiama, e persino quando andavo a dormire. Questo per dire che soltanto pochi se li potevano permettere, e chi ce li aveva se li teneva stretti.

Portavo il 38, andai con un 40

Sapevo quale sarebbe stata la risposta dei miei genitori se fossi andato a chiedergli di comprarmi gli scarpini, quindi non mi rimaneva che don Pizzi.

«Don France’», gli dissi, «io al provino non ci posso andare».

Lui capì “non ci voglio andare”, e subito replicò: «Sei impazzito… vuoi vedere che ti ci porto a calci, un’occasione così quando ti ricapita…».

«No, io ci voglio andare ma mi mancano gli scarpini… Toto mi ha detto che nel campo in erba ci vogliono…». Don Pizzi capì che ero disperato, ci pensò un po’ e poi mi disse: «Te le cerco io le scarpe… a tutto c’è rimedio».

Don Francesco si attaccò al telefono e fece mille telefonate finché non trovò gli scarpini: erano un 40 ma io calzavo il 38, avevo tredici anni.

«…va bene, vorrà dire che ti metterai dei calzini di lana pesanti», sentenziò don Pizzi, ed ebbi i miei scarpini.

Mi accompagnò mamma, prendemmo quattro autobus

La mia mamma mi volle accompagnare al provino, anche perché io neppure sapevo dove fosse Tor di Quinto, una zona di Roma nuova vicino al Tevere, dopo ponte Milvio, cresciuta dopo il 1960 sulla direttrice della via Olimpica. (…)

Con mia madre ci facemmo spiegare il percorso da un conoscente che lavorava all’ATAC che ci fece prendere quattro mezzi da Trastevere. Un viaggio che non finiva mai. La convocazione era per le quattordici, e noi arrivammo puntuali perché, previdenti, eravamo partiti due ore prima.

Il campo era affollatissimo, ci aspettavamo di vedere una ventina di ragazzini e invece eravamo più di cento.

Quando arrivò il momento, ci fecero allineare in mezzo al campo per ascoltare le parole del direttore del settore giovanile, una delle grandi vecchie glorie laziali, Enrique Flamini, un argentino che aveva giocato nella Lazio come oriundo, di origine italiana, cioè, come si evinceva dal cognome. (…)

«Siete centodieci», disse Flamini con il suo accento argentino che, dopo tanti anni in Italia, non aveva assolutamente perso, «sufficienti per comporre dieci squadre, che potranno disputare cinque partite di venti minuti. Andate negli spogliatoi, date le vostre generalità, poi spogliatevi: vi saranno distribuiti i fratini e vi diranno quando dovrete entrare in campo. Alla fine di tutto, passate in ufficio dove vi sarà dato il responso».

Dopo una scivolata, persi i tacchetti

Io entrai alla seconda partita. Non provai particolare emozione perché avevo visto giocare gli altri e non mi sentivo affatto inferiore, anzi fui preso da un senso di… superiorità. Quando cominciai a giocare le prime palle, che mi andai a procurare (se aspettavi che te la passavano stavi fresco, perché tutti volevano fare gol e mettersi in mostra), feci delle cose che mi piacquero tanto. Il campo d’erba mi dava una forte esaltazione, mi sembrava che tutto mi fosse consentito, e andai a prendermi una palla in scivolata. Quando mi rialzai mi accorsi che non mi tenevo in piedi, non capivo cosa fosse successo. Mi guardai sotto i piedi e vidi con raccapriccio che mi erano saltati i tacchetti di uno scarpino.

La mia partita era finita, immaginai di continuare scalzo ma pensai alla figuraccia che avrei fatto. Tentai ancora e caddi altre volte, quando sentii la voce di Flamini che mi diceva: «Esci…», e poi indicando un altro ragazzino che stava seduto a bordocampo, «entra tu al posto suo». Poi, rivolto a me: «Dagli il fratino». Me lo levai con un po’ di rabbia e uscii cercando di non incrociare lo sguardo di mamma. Rientrai negli spogliatoi più preoccupato per le scarpe che avrei dovuto restituire che per aver fallito il provino. Non feci la doccia, tanto avevo giocato poco, mi tolsi le scarpe, riposi nella borsa maglietta e calzoncini, mi rivestii e feci per uscire. Qualcuno mi richiamò e mi disse: «Dove vai? Ha detto Flamini che alla fine lui vi vuole vedere tutti per la sentenza». Pensai, la sentenza la conosco già. Mi sedetti e cominciai a ragionare su cosa avrei detto a don Pizzi quando gli avrei riportato le scarpe rotte.

“Mi avete preso?”

Finite le partite, mi misi in fila per sentirmi dire quello che mi aspettavo. L’attesa fu lunghissima perché ero fra gli ultimi. Vedevo ragazzi delusi allontanarsi con la coda fra le gambe. Alcuni, pochi, se ne andavano allegri: evidentemente li avevano presi.

Finalmente, quando arrivò il mio turno, stavo per giustificarmi con la storia degli scarpini ma Flamini non mi fece neppure parlare, perché mi disse subito: «Chi ti ha accompagnato qui?».

«Mia madre…».
«No, ci vuole tuo padre».
«Per cosa?», risposi io meravigliato.
«Lunedì prossimo, in sede a via Col di Lana a firmare il cartellino».
«Quale cartellino?», risposi sorpreso.
«Quello che ti lega alla Società Sportiva Lazio…». «Mi avete preso?».
«E certo, se ti sto dicendo di venire con tuo padre a firmare… giocherai nei Giovanissimi provinciali e i signori Contardi e Guenza, qui vicino a me, saranno i tuoi allenatori. Vedi di essere degno della maglia che indosserai…».

Mormorai un “grazie” a mezza bocca e mi slanciai fuori alla ricerca di mia madre, che stava da più di due ore seduta su un prato.

«Mamma, mi hanno preso!», le gridai da lontano.

Lei non capiva e io le gridai più forte: «Sono un giocatore della Lazio, lunedì papà deve venire a firmare». «Ma se stavi sempre per terra…», ribatté lei incredula.
«È per via degli scarpini… mi sono saltati i tacchetti, ma loro hanno capito».
«Dai, sbrighiamoci», disse lei, «ché dobbiamo prendere quattro mezzi e si sta facendo notte».
Ci avviammo in silenzio, poi lei disse: «Per questa storia stasera ne parli con tuo padre».

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