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Il Napoli per lo scudetto, la redenzione e il fatalismo

Il Napoli della continuità sembra davvero pronto a giocarsi il titolo: affrontiamolo come se fosse una cosa normale, non alimentiamo i luoghi comuni.

Il Napoli per lo scudetto, la redenzione e il fatalismo

Scudetto!

“Lo Scudetto! Lo Scudetto! Lo Scudetto!” Sembra quasi di sentire il mantra ‘A Mosca! A Mosca!’, l’auto-esortazione che le Tre Sorelle di Cechov non fanno altro che ripetere lungo i quattro atti della famosissima pièce teatrale di inizio Novecento, un’auto-esortazione che, purtoppo per loro, non riuscirà a concretizzarsi, condannandole a rimanere in quella cittadina di provincia dove nulla succede, dove nulla cambia.

Ecco, lo Scudetto come momento salvifico di un’intera città, un’intera comunità, un’intera generazione. Un po’ come avvenuto 30 anni fa, quando Maradona, novello Cristoforo Colombo, al comando delle caravelle ma ancor più dei suoi valenti compagni di squadra, avvistava terra, o meglio avvistava lo Scudetto. La terra promessa attesa da decenni dal lato opposto dell’orizzonte conosciuto.

Il peso dei luoghi comuni

Una città millenaria come Napoli, che ha vissuto momenti tragici e gloriosi, inabissamenti e resurrezioni, pestilenze, guerre, rinascimenti artistici e filosofici, dominazioni, sollevazioni e tanto altro ancora, accumula e stratifica nel corso dei secoli passioni e pulsioni, sentimenti e scaramanzie.
I cosiddetti luoghi comuni che generalizzano qualità o difetti di una città e dei suoi abitanti nascono e si eternizzano partendo sempre da situazioni reali, concrete, vissute.

Ma poi, appunto, da luoghi comuni quali rimangono, diventano un peso. E si trascinano nell’immaginario collettivo, rafforzandosi al punto tale da creare due diverse, pesantissime, conseguenze. Da un lato fa comodo, dall’esterno, sussumere che quelle date caratteristiche siano immutabili e condannino in qualche modo all’immobilismo; dall’altro, dall’interno, fanno crescere come funghi saprofiti l’autoconvincimento che le cose non si possano cambiare. Che se ci vedono così un motivo ci dovrà pur essere. E che allora, se le cose non si possono modificare, tanto vale cavalcarle, dando un bel calcio alla ragione.

Ed è al calcio che torniamo, dopo questa passeggiatina antropologica, per parlare dell’innominato. Ma non quello manzoniano, bensì quello che apotropaicamente ho scritto addirittura con la maiuscola per ben tre volte nelle prime sei parole di questo scritto.

Come se niente fosse

Scrivo facendo finta di non aver già visto il Napoli approdare ai gironi di Champions, scrivo facendo finta di non aver visto la prima di campionato a Verona (dove peraltro, a proposito di stereotipi e immobilismo, si continua ad accumulare quell’inutile spreco di energie che è l’insulto verso cittadinanze di diverse latitudini; quando capiranno i veronesi, o meglio la parte meno educata di quella splendida città, che l’insulto è lo specchio di una pochezza antropologica irriscattabile, pericolosa per chi la pratica più che per chi la subisce?), scrivo facendo finta che si sia ancora a far chiacchiere pienamente estive, quelle nelle quali non si fa fatica a dire ‘Vince questo; no, vince quello’ ma senza alcun appiglio alla realtà.

Che è poi sempre quella del campo, mi viene spontaneo dire, anche se da qualche anno, in verità, è anche molto quella del portafoglio e dei fatturati.
Mi ha molto colpito, rimanendo quindi alla chiacchiere estive, questo aver sdoganato la famigerata parolina scudettata da parte di molti e su diverse sponde.

Non si fa mistero di puntare allo Scudetto da parte di DeLa, da parte dei giocatori del Napoli, da parte di molti avversari, da parte di molti osservatori neutri. Come cambiano i tempi! Fino a poco tempo fa questa parolina era vista come il diavolo, non bisognava dirla nemmeno quando era evidente che il Napoli potesse giocarsela davvero. Ora invece se ne parla come niente fosse.

Il patto

Cosa è cambiato, dunque, perché oggi questa parola ha trovato diritto di cittadinanza?

La risposta, semplice e lineare, davanti agli occhi di tutti, è che quest’anno la squadra, guidata da Sarri per il terzo anno, potrebbe essere ancor più forte e compatta (inoltre, per la prima volta da non so quanti decenni, è praticamente la stessa dello scorso anno grazie al famoso ‘patto’ tra i calciatori di cui tutti oramai parlano apertamente, a partire da loro; una roba romantica d’altri tempi, in effetti, che però la mia naturale curiosità di drammaturgo e sceneggiatore amerebbe sentirsi raccontare nel suo svolgimento minuto: chi di preciso l’ha proposto, quando e dove è avvenuto, c’è stato qualcuno che ha tentennato e così via), che la Juventus non può vincere all’infinito, che le due milanesi, per quanto rafforzatesi molto, cominciano di fatto ora un progetto tecnico a differenza della continuità e della crescita costante del Napoli, e che la Roma sembra essersi auto-ridimensionata per motivi economici, con la Champions pronta a sottrarle energie enormi.

Ma le risposte semplici e lineari non mi sono mai risultate convincenti e così, riflettendo e leggendo altre dichiarazioni, soprattutto tra le righe, sono arrivato ad intuire un’altra risposta, meno semplice e lineare, ma altrettanto lampante ed evidente, a volersene rendere conto.

La tesi è questa: visto che il Napoli non ha i danari delle altre quattro società in questione, grazie alle proprietà straniere o alla straripante forza di sempre juventina, meglio approfittare di quest’anno. Perché dal prossimo i fatturati spazzeranno via robe romantiche come ‘patti’ e cose del genere.

Oltre il fatalismo

La congiunzione è favorita dal fatto che il Napoli di oggi sia obiettivamente una squadra molto forte e l’autoconvincimento può servire a fare il resto, quindi approfittiamone se no… ciccia, se ne riparla tra trent’anni.

E no, questa tesi fatalistica, che noi napoletani per primi sosteniamo e diffondiamo, come se questo fosse l’ultimo (o l’unico) anno utile e quindi ‘o la va o la spacca’ (e quindi, ancora, non avendo nulla da perdere essendo l’ultima occasione, chissenefrega della scaramanzia, gridiamo al mondo che anche noi puntiamo allo Scudetto, come mille altre volte c’abbiamo puntato ma senza dirlo nemmeno a noi stessi, pena un ritorcersi contro della scaramanzia stessa; ecco il luogo comune immutabile trionfare) è esattamente il contrario di un progetto pluriennale che ci si dovrebbe auspicare di avere. E che, piaccia o non piaccia il modo, De Laurentiis ha avviato meno di 15 anni fa. Facendo del Napoli l’unica squadra italiana da anni ininterrottamente in Europa.

Stare tra le prima

Da appassionato e tifoso è ovvio che non vedo l’ora che questa squadra riesca a concretizzare un importante obiettivo vittorioso, perdipiù attraverso questo gioco che ormai tutti in Europa conoscono, rispettano e ammirano, ma ancor di più mi preme che continui nel tempo quello che sta avvenendo da almeno un decennio, che il Napoli cioè stia sempre in lizza giocando bene, che stia sempre lì a puntare un traguardo, un obiettivo di prestigio, che le sue partite continuino ad avere un senso fino a fine stagione, che sia insomma una squadra sempre tra le prime.

E chi è sempre tra le prime, prima o poi, diventa la prima. O anche la ‘prima inter pares’. Preferisco mille volte la continuità all’exploit, preferisco mille volte un secondo, un terzo, un quinto e poi di nuovo un secondo e poi finalmente… un primo posto; e, di nuovo, a ricominciare, un secondo, un quarto e così via fino ad un altro primo posto.

Costanza

Un lungo ciclo ininterrotto; un’abitudine a stare in cima che renda consueta la parola ‘Scudetto’ e non lo renda l’eccezione, quell’avvenimento unico ogni trent’anni a cui si arriva come al termine di un lunghissimo coito, che ci fa tremare i polsi, che ci emoziona a palla, che ci fa godere tantissimo ma che poi, una volta raggiunto, ci fa talmente mollare emotivamente da far passare altri decenni prima di poterlo riassaporare.

Quindi, parliamo tranquillamente di Scudetto. E non mordiamoci la lingua se malauguratamente non dovesse arrivare, quest’anno, pronti a ripetere il mantra anche l’anno prossimo e poi quello dopo, purché la squadra sia obiettivamente forte.

Oltre il fatturato

Invertiamo la tendenza, l’importante è che si sia sempre lì a lottare per quell’obiettivo, e non fasciamoci la testa con i discorsi legati ai fatturati.
Contano, contano moltissimo, ma conta anche la valorizzazione del lavoro incessante e maniacale che, sotto i nostri occhi, questo gruppo sta facendo.
Basterà, non basterà? Non lo sappiamo e se lo sapessimo prima non ci troveremmo alcuno sfizio.

Capiamoci: uno Scudetto non redime una città. Non potrebbe farlo nemmeno volendo. Non l’ha fatto nemmeno quando finalmente e fatalmente l’abbiamo vinto 30 anni fa. Una città è un organismo vivo nei secoli. E Napoli, ancor di più, nei millenni. Non possiamo cadere vittima di un perenne incantesimo che ci fa accettare proni un fatalismo che ci immobilizza, nei pensieri prima ancora che nelle azioni.

Facciamo che sia normale

Anche perché è esattamente quello che vogliono e che si aspettano gli altri da noi. In questo modo sanno già che ci saremo sì, ma che poi scompariremo. Per poi riapparire ogni tanto, senza dare troppo fastidio, dandoci così abbastanza per scontati.

Parlare di Scudetto si può e si deve ogni volta che la squadra dimostra di avere un valore tecnico. Ma non gettiamo addosso a questa parolina il gravoso compito di rappresentare una svolta, una rivincita o chissà cos’altro. Facciamo invece che sia normale e non epocale parlare di vittorie. E lo stesso valga per l’amministrazione di una città porosa sì, ma non colabrodo, non almeno nella sua parte sana.

Altrimenti continueranno a dirci che ci piangiamo addosso. Mentre noi, al limite, vogliamo piangere e ridere per le sconfitte e le vittorie, nel calcio e in tutto il resto, seguendo la giusta e naturale logica dell’alternarsi delle cose.
In questo periodo abbiamo una squadra forte che può vincere, e non una sola cosa una sola volta (i cicli esistono, sapete, anche per club apparentemente minori, e la storia di questo sport lo dimostra abbondantemente), quindi quel mantra, ‘A Mosca! A Mosca!’, non resterà lettera morta. E lo scudetto arriverà, con naturalità e semplicità. Se solo si continuerà a fare l’unica cosa che va fatta per ottenere dei risultati: lavorare, lavorare, lavorare.

Post scriptum

Dato che il calciomercato quest’anno è stato assurdo, fuori ragionevolezza esattamente come le temperature e il caldo-killer mai così forte, persistente e martellante, faccio una piccolissima chiosa sul mercato del Napoli.
Un impianto di gioco affermato e la volontà, romantica come ho scritto sopra, dei calciatori di rimanere almeno quest’anno tutti assieme per ottenere un grosso risultato, non deve far sembrare l’atteggiamenteo del Napoli rinunciatario. Anzi, al contrario.

È molto più semplice acquistare per acquistare piuttosto che resistere a tale impulso. Questo non significa che questa squadra non possa e non debba essere migliorabile. Tuttavia, l’unico mio pensiero fisso è stato invece il seguente: ho sognato tutta l’estate che il vero, incredibile, acquisto, il vero Mister X di cui tanto si è favoleggiato potesse prenderlo il DeLa in persona con una delle sue mosse a sorpresa (ma non come la maschera da leone per Inler). Presentarsi in ritiro prima dell’andata del preliminare con un bel contratto a cifre più che raddoppiate per il conducator Sarri.

Ecco, stante così le cose nel nostro mondo pallonaro attuale, questo sarebbe l’unico, vero, insostituibile acquisto-bomba del Napoli. Blindare l’artefix maximo di questa squadra. Non l’ha fatto, peccato. Ma mi piace pensare che sia ancora in tempissimo per farlo.

Anche perché, visto che le cifre si sono alzate parossisticamente, ci sono ben sei colleghi che guadagnano cifre blu superiori alla sua, quasi tutti senza aver vinto alcunché. E senza aver creato ancora un decimo di quello che quest’uomo tenace, capatosta, tra lo scorbutico e il timido, ha finora provato a creare.

Giovanni Meola è autore, drammaturgo, sceneggiatore e regista teatrale e cinematografico
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