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Bellenger, la gioia e la fatica di amare Capodimonte: «È una battaglia per tutto, dai bagni alla polizia»

Intervista al direttore del Museo. «L’Italia è malata di burocrazia e non conosce il concetto di manutenzione. Si riprenderà solo quando capirà che serve il ricambio generazionale»

Bellenger, la gioia e la fatica di amare Capodimonte: «È una battaglia per tutto, dai bagni alla polizia»
Il direttore del Museo di Capodimonte Sylvain Bellenger

Una scelta d’amore

Ingresso del Bosco di Capodimonte, via Miano, metà mattinata. Due operai sono chini sulla pavimentazione. La stanno risistemando, con lo stucco lavorano all’eliminazione dei buchi. È la prima immagine del polmone verde più grande della città. 134 ettari, ricorda orgogliosamente Sylvain Bellenger da due anni alla guida del Museo e del Real Bosco. Francese, normanno per la precisione. Proprio a Capodimonte il giovane 25enne professore di filosofia venne folgorato sulla strada della storia dell’arte. Osservando un quadro di Masaccio, La Crocifissione.

Arrivò a Napoli su suggerimento di una sua amica scultrice che, avendolo visto sfatto dopo un anno di insegnamento, gli consigliò Amalfi e la Costiera per ritemprarsi. Una vacanza che gli cambiò la vita. Tornato in Francia, comunicò ai genitori che non avrebbe più insegnato filosofia e che si sarebbe iscritto nuovamente all’università. «Mi mantenevo facevo il custode nei Musei, e anche la guida al neonato Centre Pompidou. A tutti i giovani che me lo chiedessero, consiglierei di studiare storia dell’arte. È un lavoro che ti apre la mente».

Gli operai al lavoro a Capodimonte

Tutti lo fermano

Bellenger passeggia per il Bosco e a ogni metro viene fermato da qualcuno. Dipendenti, vigilantes privati, visitatori. Lui non si nega a nessuno, anzi. Chiacchiera, ascolta. Anche i rimproveri, come ad esempio il medico che ammonisce sull’ancora farraginosa postazione di primo soccorso (che c’è, con defribillatore) di cui c’è bisogno in un luogo in cui tante persone vanno a correre.

Questo lavoro Sylvain Bellenger lo ha fortemente voluto. Lui non voleva essere il direttore di un Museo italiano. Voleva diventare il direttore del Museo di Capodimonte.«Uno dei dieci musei più importanti d’Europa. Chi conosce l’arte, sa benissimo quale tesoro inestimabile è Capodimonte». Accanto a lui, la responsabile della comunicazione Luisa Maradei fa notare come l’ondata di ricorsi di qualche mese fa non ha interessato Capodimonte. «Qui nessuno ci voleva venire – spiega Bellenger – sapevano tutti quanto lavoro ci fosse da fare. E oggi sono fiero che Capodimonte venga citato come simbolo della riuscita della riforma».

Il rapporto con i dipendenti

Un lavoro gratificante, ovviamente anche molto duro. «A Chicago alle 18 ero un uomo libero. Qui sono impegnato fino alle nove di sera. E finisco col sognare Capodimonte di notte. È una missione, la nostra. Ed è una battaglia quotidiana contro il mostro della burocrazia. Una parola che dice tutto: il potere è nell’ufficio. Ed è un impegno che logora. Anche con i dipendenti non è semplice. Ho impiegato un po’ di tempo per far comprendere il mio modo di intendere il lavoro. Ci sono voluti mesi per conoscerli tutti, per avere una pianta organica del Museo e del Bosco. Hanno imparato che adesso le riunioni si svolgono con un ordine del giorno, un verbale e senza telefoni accesi. Mi hanno preso talmente alla lettera che ora c’è persino chi le registra. Perché è fondamentale riuscire a far scattare il senso di appartenenza ai dipendenti. Logorante, ma fondamentale».

I bagni ristrutturati, che non possono essere aperti

La chiamata da Roma

Per Bellenger non c’è tanta differenza tra Napoli e l’Italia. Quando si sofferma sui difetti, lui parla di Italia. «Mi è stato tutto chiaro ancor prima di cominciare. Svolsi la prova del concorso su Internet, come tutti. Poi non seppi nulla per sei mesi. Una sera, ero a Chicago, un amico mi chiamò per dirmi che avevo ottenuto un voto molto alto. Ne seguì un altro periodo di silenzio. Poi un venerdì squillò il telefono. Era il ministero, mi davano appuntamento la domenica alle otto a Roma, in via del Collegio romano. Risposi che soltanto per caso in quel momento ero a Parigi. Se fossi stato a Chicago, dove lavoravo, sarebbe stato impossibile raggiungere Roma. La domenica mi presentai regolarmente, fui chiamato per primo. Non avevo preparato nulla, ovviamente ricordavo il progetto che avevo elaborato per Capodimonte. Potevo scegliere se esporre in italiano o in inglese. Scelsi l’inglese, mi sentivo molto più sicuro. Ma nessuno dei giurati lo capiva. Tranne uno: il direttore della National Gallery di Londra.

Il mio, più che un’esposizione, fu un accorato appello. Dissi che l’Italia aveva il dovere di salvare Capodimonte. Raccontai le scene cui avevo assistito nel corso della mia ultima visita. Disorganizzazione, dipendenti con le camice sudate, assenza di aria condizionata. Un Museo così importante, completamente abbandonato. Il mio fu quasi un atto d’accusa. Me ne andai con la certezza che non mi avrebbero mai chiamato».

La trattativa sulla divisa

E invece andò diversamente. «Qui tutto è una battaglia. Vede questi cartellini al collo dei dipendenti? È stato il risultato di una trattativa lunga diversi mesi. Per me era impensabile che i dipendenti non avessero una divisa. Inizialmente, sembrava che fossero tutti d’accordo. Però, di volta in volta, emergevano richieste diverse. Prima due camicie in dotazione, poi la discussione sul disegno della divisa, quindi la richiesta di un quarto d’ora in entrata e in uscita, da sottrarre all’orario di lavoro, per cambiarsi. Dopo non so quante riunioni, ho chiuso la vicenda d’imperio: niente divise, un badge di riconoscimento al collo con un laccetto verde. Ho deciso anche la tonalità di verde, anche di quello avrebbero voluto discutere».

Capodimonte di notte (Alessio Cuccaro)

Bellenger ci tiene a precisare che lui ama la democrazia, «ma bisogna capire che democrazia non significa che ciascuno fa quel che vuole. Ogni tanto servono interventi che qualcuno, sbagliando, potrebbe definire dittatoriali».

La cura del Bosco

Ci mostra i prati di fronte al Museo, attualmente delimitati da un antiestetico nastro bianco e rosso, quelli da cantiere per capirci. «Lo abbiamo messo per consentire all’erba di crescere. Quest’area è il biglietto da visita del Museo. Su queste aiuole non si può e non si potrà camminare. Tutt’intorno sì. Ci sono 134 ettari per camminare sull’erba. Stesso discorso per i ragazzi che giocavano a calcio. Abbiamo creato due campetti nel Bosco. Sono talmente utilizzati che l’erba è scomparsa del tutto. In autunno li doteremo di erba sintetica, perché i bambini, i ragazzi devono essere responsabilizzati. Devono capire che hanno diritto ad ottenere ma anche a preservare ciò che viene loro giustamente concesso. A Parigi, lo ripeto spesso, i ragazzi e i bambini in piscina pagano un euro».

Un concetto molto caro a Bellenger è quello della manutenzione. «È fondamentale e invece è del tutto trascurata. È la manutenzione ordinaria che fa la differenza. È più semplice organizzare un’inaugurazione e poi lasciare la struttura abbandonata a sé stessa. Quando sono arrivato, non funzionava nemmeno l’illuminazione del parco. C’erano siringhe, preservativi, ci si prostituiva persino».

Ci racconta dei tre bagni all’ingresso di via Miano. Li ha fatti sistemare, sono nuovi. Ma chiusi. Ce n’è uno per le donne, uno per gli uomini e uno per i portatori di handicap. «Li debbo tenere chiusi, altrimenti dopo due giorni li trovo vandalizzati. I custodi dicono che il controllo dei bagni non rientra nelle loro mansioni. La vigilanza privata mi ha chiesto una cifra eccessiva. E non possono neanche provvedere i cittadini che si erano offerti di farlo in cambio di mance. È la burocrazia».

La mappa di Capodimonte

Il rifugio nell’individualismo

Eppure Bellenger è entusiasta. Gli brillano gli occhi quando parla di Capodimonte, delle sue porcellane, dei disegni. Senza nemmeno addentrarsi nella collezione. È affascinato e soffre allo stesso tempo il rapporto con l’ambiente che lo circonda. Con l’Italia, e di conseguenza con Napoli. «Le persone che mi sono vicine sul lavoro non riescono a capire fino in fondo come possa avvelenarmi l’umore e le giornate per qualcosa che non funziona. È come se per loro fosse impensabile. Quando mi vedono arrabbiato, mi offrono le sfogliatelle. Ho imparato tanto qui. Ricordo che quando arrivai, scelsi una giovane di 23 anni come insegnante di italiano. Lei mi raccontava le sue giornate che a me sembravano infernali. Dal bar chiuso all’autobus che non passava, ad altri contrattempi che la perseguitavano. Eppure me lo raccontava sempre col sorriso sulle labbra. Quando le chiedevo come facesse, mi rispondeva: “dobbiamo pensare a noi stessi, a stare bene”.

Credo – aggiunge Bellenger – che le inefficienze della vita pubblica finiscano con l’alimentare ulteriormente l’individualismo. Provare a cambiare e a migliorare quel che ti circonda, ti sembra una battaglia impossibile e allora finisci per concentrarti su di te. È un vero peccato. Qui ci sono professionalità importanti che non riescono a lavorare nel pubblico. Se penso alla recente mostra di Picasso organizzata a Capodimonte, devo dire che il lavoro più importante lo hanno svolto professori precari napoletani: gli unici ad aver compreso realmente il senso della mostra e cioè l’impatto di Napoli sull’arte di Picasso. Hanno scritto degli elaborati perfetti».

La fontana per i cani

«Servono i concorsi pubblici»

Bellenger quasi vorrebbe interrogarci. La domanda che vorrebbe fare è: quand’è cominciato il declino? Pensa all’emergenza idrica di Roma e non se ne capacita. Ha una risposta: lui sa quando l’Italia potrà tornare ai livelli che le competono. «Quando si capirà che i concorsi pubblici vanno fatti ogni anno. L’età media in questo settore è altissima. A Capodimonte è di cinquant’anni e mi sto tenendo basso. Non ci sono i trentenni, i quarantenni. Pochi parlano inglese, quasi nessuno sa usare il computer. Bisogna inserire nella pubblica amministrazione i giovani validi. Altrimenti l’Italia non si salverà».

Racconta di una sua recente visita a una installazione d’arte contemporanea negli Stati Uniti: un giornale di carta con un bouquet di fiori. «Sono rimasto scioccato, ho chiesto all’autore cosa volesse rappresentare e lui, diciassettenne, mi ha candidamente risposto: “Un mondo passato, io non ho mai letto un giornale di carta”. Bisogna aggiornare il personale dipendente dei beni culturali in Italia. E bisogna farlo ogni anno».

Non poteva mancare il passaggio relativo alla visita alla moglie di Renzi, visita che abbiamo criticato sul Napolista e che in fondo ci ha consentito di essere invitati: «Non può mai essere questo il problema. Bisogna anche avere rispetto della politica. Non voglio addentrarmi in ragionamenti politici, ma si tratta di persone che svolgono una missione. Che magari potrebbero fare altro. Trovo grave, invece, che qui a Capodimonte c’è una caserma di polizia e i funzionari con le loro automobili occupano il parcheggio riservato ai visitatori. Lo trovo inaccettabile e presto cambierà. Questi sono i privilegi, non la visita privata della moglie di Renzi».

La magnolia di Capodimonte dai fiori bianchi (Alessio Cuccaro)

Un nuovo Musée d’Orsay

Bellenger ci racconta che ha scelto di non abitare a Capodimonte. L’edificio che aveva pensato di occupare, sarà destinato alla collezione di disegni e di bozzetti del Museo. «È un autentico tesoro. C’è un grande lavoro che stiamo facendo. Tutto l’Ottocento, dal vedutismo al verismo. Non vorrei esagerare, ma sarà un nuovo Musée d’Orsay. L’impressionismo attira di più, è considerato più importante ma il verismo è un periodo molto sottovalutato della storia». Tanti sono i progetti sul tavolo. «Salto da una riunione all’altra. Stiamo organizzando mostre fino al 2021. Come del resto avviene all’estero. Quando ho lasciato Chicago, stavo lavorando a mostre del 2025. Le attività si preparano, c’è un lavoro di anni alle spalle.

«Abbiamo in cantiere, tra i tanti progetti, l’apertura di una scuola per giardinieri, di un ristorante a chilometro zero. Un Museo non è una collezione, dev’essere una risorsa anche economica per il quartiere e la città. Persino i ristoranti e i bar qui attorno sono cambiati. Quando sono arrivato, Capodimonte era invisibile, ora se ne parla. Continua ad essere poco accessibile, nel senso di non facilmente raggiungibile, ma anche a questo stiamo lavorando».

Immancabile, per il Napolista, la domanda sul calcio. «No, non mi piace. Adoro lo sport, il rugby in particolare, mio fratello è insegnante di ginnastica. Lo sport è un formidabile strumento di formazione, insegna a superare gli ostacoli, a fare squadra. Il calcio oggi lo trovo insopportabile sia per gli eccessivi economico-finanziari sia per queste figure di calciatori-eroi che trasudano un maschilismo grottesco».

Potremmo conversare di tante altre cose. Anche solo del Bosco e della botanica di cui è grande appassionato. Lo reclamano per una riunione. Non ha tempo di pensare al futuro («Ho talmente tante cose da fare»), direttore, ma ci dica: “Se tra due anni dovesse lasciare Capodimonte (il contratto di direttore dura quattro anni), avrà paura per quel che potrà accadere senza di lei?”. Cerca di trattenere il più a lungo possibile la risposta e poi dice: «Un po’ sì. Bastano due mesi di incuria per vanificare il lavoro di anni».

Un po’ di numeri

Il Bosco
134 ettari (18% prato, 29% aree seminaturali, 51% formazioni
arboree artificiali, 2% frutteto)
• 6 km di muro di cinta
• 400 entità vegetali di provenienza esotica suddivise in 108
famiglie e 274 generi che testimoniano l’identità portuale della
città di Napoli
• 1 milione 500 mila annui, in continuo aumento
I dipendenti del museo invece sono 206 al momento.. sui numeri visitatori superati i 100mila nei tre mesi della mostra Picasso (dall’8 aprile al 10 luglio) 
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